Non risulta che Gottlieb Fichte fosse imparentato col Barone di Münchhausen. Originari della stessa regione – la bella Sassonia, bagnata dall’Elba, patria del barocco tedesco, delle porcellane di Meissen e degli organi su cui si esercitarono Händel e Bach – i due, probabilmente, non si incontrarono mai. Non deve, però, risultare inaspettata la convergenza spirituale che segretamente li lega. Ha qualcosa a che vedere con l’arte del barone di ignorare le leggi della fisica. Quasi fosse un naturale complemento del sistema fichtiano, l’immagine del barone che esce dalle sabbie mobili prendendosi per i capelli diviene l’illustrazione perfetta della strana dialettica instaurata dall’Io col Mondo nella Dottrina della scienza.
In quest’opera, il cui titolo la dice lunga sul desiderio del suo autore di fondare un sapere nuovo e rigoroso, per alludere alla particolarissima natura dell’Io – nello stesso tempo, attività agente e il prodotto di tale azione – Fichte usa una parola: Tathandlung. Precisa come sanno esserlo certe parole tedesche, questa lunga e complessa grafia ci ricorda come un concetto sia una unicità fatta di distinzioni. E poiché ogni concetto va sciolto per essere compreso, anche questa parola va ridotta nei suoi componenti per essere intesa. L’Io di cui parla Fichte è, infatti, un’attività (Tat) che si ricapitola nel suo effetto (Handlung), che si compie solo per dar forma al proprio gesto. Con un’immagine calzante, potremmo definirlo una mano che si disegna, che nel voler descrivere il Mondo (die Welt) scrive l’Io (Ich), per poi leggervi sopra la parola “libertà” (Freiheit). Altra bella parola “libertà”, che suona particolarmente concreta e violenta, in tedesco. Forse questo valore fonetico del termine tedesco rivela un rimosso singolare del pensiero comune; ovvero la scarsa disposizione ad ammettere quanto la libertà sia una rogna, una condanna senza pari. È in virtù di questo misunderstanding che la filosofia di Fichte viene presentata nei manuali come l’happy ending dell’empirismo e del kantismo insieme. Niente più limiti alla conoscenza, basta con la degradante idea dell’uomo-fascio-di-percezioni – con buona pace dello scozzese che negava la causalità giocando a biliardo. Cade, infine, la linea di confine tra ciò che è in me e ciò che è fuori di me. Una grande e ardita semplificazione, non c’è che dire! Ma, nonostante questa romantica conquista, la scoperta fichtiana dell’Io rivela alcuni imprevisti fastidi. Innanzitutto la coscienza di una cosa, di qualsiasi cosa, deve passare necessariamente per l’autocoscienza: non si può pensare nulla che prima non sia transitato per la coscienza e non abbia contribuito a darle una forma nuova, più estesa.
L’Io è, secondo la definizione fichtiana, l’attività di ritorno su di sé. Conoscere è produrre, certo, ma sempre e incessantemente se stessi. Non sarà sfuggito che questa assoluta libertà ha poco a che vedere con l’identità. Come un tennista solitario, l’inventore dell’Io – quale dimensione infinita che sposta continuamente l’asticella della propria estensione – ne ammette l’indefinita tensione da un lato all’altro della rete, per rispondere continuamente ai suoi stessi colpi. E più ancora che a un giocatore con due racchette, l’Io fichtiano rassomiglia al campo da gioco del vecchio videogame Arkanoid, quello in cui una sfera veniva lanciata da una barra mobile contro dei mattoncini che si moltiplicavano e avanzavano per impedire alla sfera di arrivare a toccare il fondo del quadro. Questo gioco è più utile al nostro immaginario – che non conosce la Sassonia e i suoi favolosi avventurieri – a rendere l’idea di dialettica, quale “sintesi degli opposti per mezzo di una determinazione reciproca” (Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre, trad. it., Fondamenti dell’intera Dottrina della Scienza, II,4, 1794). Un continuo rimbalzo da sé ai suoi limiti transitori (da sé stessa posti) questo è il movimento giocato dall’Io di Fichte per trarsi d’impaccio dalle sabbie mobili trascendentali della conoscenza. Lanciare avanzare, non terminare, un agone solitario che prietta un mondo davanti a sé ripetendo un mantra:
L’Io pone se stesso come potenza auto creatrice e infinita;
L’Io oppone a sé il non-io;
L’Io oppone, in sé, a un io divisibile un non-io divisibile.
Con queste tre Grundsätze (proposizioni fondamentali) Fichte edifica una barriera, un incantesimo senza origine né fine: giocatore e avversario si fronteggiano da un inizio che è sempre in medias res fino al prossimo quadro, che è sempre il penultimo. Sullo sfondo, quale pattern visibile, ma destinato a dimenticarsi nella tensione del gioco, scorre una narrazione silenziosa:
“Esiste originariamente una coscienza infinita, così libera da poter opporre a se stessa il proprio contrario, il Non-io (Nicht-Ich). È un Io ovattato a porre il mondo della cosiddetta Natura, a reclamare un corpo, una barriera di impulsi, un limite nella carne. A ritrovarsi io diviso tra un’aspirazione all’indeterminato e il labirinto presente dei condizionamenti, senza possibilità di fughe né di assimilazioni”.
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In evidenza: un ritratto di Johann Gottlieb Fichte (1762 – 1814).