Il romanzo Un figlio al fronte è davvero un’occasione unica: lo è per i lettori, che possono finalmente conoscere un grande testo; lo è per il suo editore che attraverso di esso vede la sua strada, il difficile cammino di identificazione con la sua linea e di definizione del suo profilo – come si dice utilizzando una metafora proveniente dalle arti figurative – raggiungere uno snodo decisivo, uno tra i tanti.
L’unicità della circostanza dipende certamente dalla natura straordinaria di questa pubblicazione: il romanzo della Wharton non è mai apparso finora in Italia. Questo dato, per chi conosce l’autrice – tra le più note e amate scrittrici del secolo scorso (la prima donna a vincere il Pulitzer, nel 1921) – desta parecchio stupore, non solo perché Edith Wharton è tra le più lette autrici di sempre, ma anche perché, nonostante molti anni ci separino dal mondo che l’autrice descrisse in maniera così mirabile, l’influsso della sua scrittura seppe ispirare, in anni meno lontani, anche il cinema, territorio questo di più forte influenza sull’immaginario contemporaneo – si vedano i film che John Madden e Martin Scorsese trassero da Ethan Frome e L’età dell’innocenza.
Che un tale capolavoro, perché di questo si tratta quando si parla di A Son at the Front (seguendo il titolo originale), sia rimasto pressoché sconosciuto al pubblico italiano potrebbe indurre, non solo gli esperti del settore, a qualche riflessione. La ragione per la quale un romanzo, non certo minore di un’autrice di per sé di grande levatura, non sia finora mai stato pubblicato in Italia è forse complessa. C’è in gioco certamente il tema scomodo – la Grande Guerra – e la volontà di dimenticare l’“inutile strage” del primo conflitto mondiale; il fatto che una scrittura così engagée fosse inedita, e forse non richiesta, per un’autrice come la Wharton. Si tratta, è inutile negarlo, anche di una certa pigrizia editoriale. Se abbandoniamo però quest’ordine di considerazioni, marginalmente polemiche, non è difficile riconoscere nell’inedito non solo una sorta marchio d’onore, che ammanta di preziosità un testo e lo rende attraente, tanto da riflettersi (in rari casi, per la verità) perfino sull’editore che ha avuto la ventura e il coraggio di reincontrarlo, ma il destino stesso di ogni grande opera. Direi che lo statuto di inedito è la consistenza endemica di ogni capolavoro. La sorte di ogni opera autenticamente grande è tanto quello di essere un testo unico – inimitabile e geniale, sotto molti rispetti – quanto inedito; l’uno e l’altro termine, in questa accezione, sono quasi sinonimi. E se i testi immortali, come diceva Deleuze, sono sempre scritti in una sorta di lingua straniera, una lingua che ci sembra estranea e poi ci avvince proprio in virtù della sua ulteriorità, i veri capolavori sono sempre in attesa di ricevere dai propri lettori una traduzione seconda e determinante, quella che li calerà nel loro mondo e li renderà utili strumenti per la vita, quali tecnologie capaci di cambiare la visione delle cose, per la fortunata consapevolezza di chi li incontrerà.
Ogni grande libro è, dunque, sempre al proprio debutto editoriale; in questo caso è toccato a Grenelle portarlo a battesimo. Come una sorta di trasmigrazione, può capitare ai libri di vivere silenti nei vuoti invisibili, tra gli scaffali delle librerie. Solo alcuni ne sono richiamati, quando accade a volte si diventa perfino editori.
Un figlio al Fronte è dunque un testo immortale, la cui lunga vita l’ha visto trasmigrare, inatteso, fino a noi. Come tutte le scritture autentiche, capaci di infondere piacere della scoperta di nuovi mondi, e di presentarli con uno stile unico – nel caso della Wharton, poi, godibilissimo -, la sua apparente lontananza temporale dalla nostra epoca non ne intacca minimamente il valore. È anzi in grado, come pochi, di farci riflettere sul nostro presente. La vicenda narrata – le traversie di un pittore americano (John Campton), da tempo stabilitosi a Parigi, e di suo figlio (George) all’alba della Grande Guerra – è un appello toccante, distruttivo e istruttivo, un’implacabile potente richiamo alla nostra condizione di individui contemporanei.