Paris nous appartient (pas)

Forse qualcuno ricorderà il film del 1961 di Jacques Rivette – uno dei fondatori della nouvelle vague – nel quale si narrano le vicende di un gruppo di giovani artisti, outsider e squattrinati, che non trovano il loro posto nel mondo o dal mondo, semplicemente, scappano. Primo luogo di rifugio per questi reietti cresciuti nelle macerie della seconda guerra mondiale è una città, Parigi, ancora e sempre, la madre distratta e comprensiva di anime tormentate, che vivono con poco, ma quel poco lo amano e consumano profondamente. Parigi gli appartiene, e loro contribuiscono a farne un luogo magico per tutti coloro che coltivano il segreto anelito alla felicità.

Come sembra lontano quel mondo oggi, distante nel bianco e nero sgranato; quella rappresentazione filmica di un’esistenza mitica, tipicamente parisienne, fatta di amore e follia, leggerezza e tragedia, ci parla però ancora di noi, delle legittime aspirazioni dei vent’anni a vivere, se non in un mondo, in una città che si faccia scoprire lasciandoci intravvedere il nostro futuro. E se tale aspirazione ci pare condivisibile, pure in essa c’è qualcosa di velleitario, almeno così pare a chi abbia abdicato all’innocenza dei suoi vent’anni da quando un senso sconfinato di paura veniva ripetuto come un mantra dai notiziari unificati dell’11 settembre. La guerra ci è cresciuta addosso, scalzando ogni illusione di libertà, comunicazione, conoscenza; non può perciò che suonare strano, fuori tempo, lo squillo di tromba di un intellettuale da salotto ferito, come i suoi concittadini, dai fatti parigini. Il pensatore in questione, noto per il suo acume, non meno che per i fortunati natali, dichiara solennemente lo stato di “guerra”, arrotando bene le “erre”, perché si capisca che fa sul serio. Parla di una guerra non voluta, né da lui né dai cittadini democratici, ma ormai innegabile, che esige delle azioni concrete, forti. Accenna alla deterritorializzazione del conflitto, alla sua totalità – per gli obiettivi e i mezzi – e alla sua dimensione globale, il cui campo di battaglia non conosce soluzione di continuità né frontiera. Ed è in virtù di questo mutato scenario – mutato e maturato in almeno un ventennio – che sorge l’esigenza di riattivare la parola “guerra”. Il filosofo ne rivendica la necessità, nonostante il rigetto che per essa provi chiunque sia stato educato al culto della democrazia. Il maître a penser transalpino, che è anche giornalista e, in genere, uomo di larghe vedute, urla “combattere per salvarsi”, per salvare i valori della Repubblica, del legittimo Stato, della consapevole e democratica comunità universale. Urla questo prima di cadere in deliquio, vittima di un pensiero consunto dalla sua stessa dottrina. Quella stessa arma sottile che affilava durante le barricate del maggio, alla giusta distanza dal marxismo e dal capitalismo (per poter smascherare entrambi), sembra ora renderlo, più facilmente di altri intellettuali, vittima del pensiero comune, del sentire di pancia; da sempre orgogliosamente privo di una corazza ideologica non sembra saper schermare il presente. Il pensatore dei né-né, l’equilibrista dei distinguo, adesso sa perfettamente da che parte stare ed esige che tutti facciano lo stesso. Il pensiero ferito reclama soddisfazione per il fastidio di dover reincardinare l’“inatteso” affronto, per il turbamento di dover prestare attenzione a un problema per troppo tempo trascurato. C’è bisogno – ribadisce – che tutti, specie gli “altri”, i dissidenti, i non omologati, gli irregolari del costume, degli stili di vita, rendano nota la loro posizione. Egli vuole che si individuino le frontiere e l’estensione del male. Chi sono i terroristi, gli islamo-fascisti, i propagatori di morte, gli invasori tirannici? Dove hanno, se non patria, luogo d’elezione? Ma soprattutto egli pretende, a questo punto, che gli islamici – una comunità in fondo sconosciuta, indistinta e incompresa agli occhi dall’occidentale medio – definiscano e dichiarino dove intendono schierarsi, stabilendo l’adesione o meno a dei valori condivisi, ad una umanità irrefutabile, di indiscutibile matrice occidentale.

Dalla riattivazione della parola guerra (senza interrogarsi sull’esistenza o meno della cosiddetta pace) all’individuazione – altrettanto dialettica – del nemico. Il filo logico non fa una grinza.

D’altronde, “Stadtluft macht frei”, recita il proverbio altomedievale, risuonando premonitore nella testa infoiata del nouveau philosophe. Da venerdì scorso non è più lecito amare il football, il rock, i café ed i bistrot, senza temere che un nemico inconfessato, coltivato all’ombra della Ville lumière, venga a chiederci inopinatamente il conto. Il conto di cosa? Della libertà di scelta, del diritto al divertimento, alla distrazione? Maturato ai danni di chi? Distruggendo, consumando e sciupando cosa? Chi abbiamo calpestato per disporre liberamente del nostro tempo, dei nostri soldi, ogni week end? Il nostro infuocato pensatore non lo dice, non è cosa semplice d’altronde; quello che sa, però, è che il nostro nemico ci odia, odia in noi la libertà che regalano le metropoli, dove regna lo spirito delle leggi, il diritto all’individualità, e si prende alla lettera l’epistola sulla tolleranza di Locke. Una città mirabile questa, ai più invisibile, verrebbe da dire, edificata sui libri di illuminati trattatisti occidentali, poco realizzata nei piani urbanistici e politici dei nostri governanti. Ma stornate questo vecchio pensiero dalla vostra testa, non è tempo per le giustificazioni, per i mea culpa postcoloniali: non è stata l’ineguaglianza, la miseria ad aver gettato delle vittime fra le braccia di squilibrati portatori di morte, fascisti che vagamente professano un’ispirazione religiosa. Non vi fate intenerire, loro hanno soldi, capacità di rappresentarsi, vendersi e comprare; glielo abbiamo insegnato noi.

Guerra, dunque, ovvero emarginazione, neutralizzazione di quella parte avversa che occupa i confini nazionali, la cellula dormiente che aspetta il momento propizio per colpire le mollezze occidentali. Mettere alle porte il nemico più pericoloso, quello che ci abita accanto, ecco cosa bisogna preventivamente fare. Non è forse questo l’atto identificante della nazione. I caccia lanciati verso ignote basi desertiche, leggi speciali per tacitare il dissenso e l’opposizione, il piano prêt-à-porter che gli strateghi e i consigli transnazionali snocciolano da vent’anni a questa parte è già pronto. E tanto basta a rinsaldare un solido spirito patrio, magari poco meditato, radicato nel terrore e nel dolore, in secoli ultra brevi, che esigono un aggiornamento (senza backup ) ogni due lustri.

Quello che però vogliamo sapere, prima che l’intelligence faccia il suo corso, è chi adotterà le raccomandazioni dell’intellettuale ferito, chi si doterà preventivamente di un lasciapassare. Vogliamo sentire chi, tra i papabili nemici, pronuncerà il suo “not in my name”, così da lasciarci individuare con tutto comodo i nostri veri nemici. Un nome può questo, cambiare il mondo, stabilire confini territoriali, negarne altri individuali, e costellare il globo di popoli, razze, nazioni: è la guerra fratello. Paris nous appartient pas.

In evidenza: un’immagine tratta dal film “Paris nous appartient” di Jacques Rivette, 1961