Un verre descartien

È la scena, apparentemente sciatta, apparentemente irrilevante, di un film di Godard (Vivre sa vie, 1962, 85 min., B/N, Les Films de la Pléiade).

Anna Karina entra in un café parisienne, si accende una sigaretta, si guarda attorno. Punta un tranquillo signore che occupa il tavolo di fianco al suo. Con una malizia indescrivibile, che è un mélange di smania sessuale e svogliata incomprensione nei confronti della vita, si rivolge all’uomo chiedendogli di offrirle un bicchierino. L’uomo accetta, con sottile curiosità. I due si siedono vicini, la naturalezza con cui questi sconosciuti gestiscono la loro improvvisa promiscuità non ha nessuna spiegazione (né il senso comune né una stringente ragione drammaturgica ci spiega come mai si comportino così). Una certa noia o sciatteria, se volete, muove i loro gesti, le loro parole, i loro corpi.
Eccoli dunque, questi sconosciuti, considerarsi un attimo, reciprocamente, guardandosi di sottecchi mentre ordinano un caffé e un aperitivo. Non molto sembra importare loro mentre si accendono l’ennesima sigaretta. L’impressione, in questa scena come in tutto questo film frammentario, che rifiuta un filo unico narrativo e si ispira – a detta dell’autore – al Francesco, giullare di Dio di Rossellini, è quella di essere catapultati in medias res, quando le cose sono già avviate, quando qualcosa è già iniziato, forse perso.

Ma andiamo oltre, torniamo alla nostra scena. Anna Karina comincia, con la strana imbronciatura che sempre le aleggia sulle labbra, a rivolgere all’uomo una serie di questioni ancestrali, alludendo persino al cosiddetto senso (presunto) dell’esistenza. In particolare, domanda al tranquillo signore che le siede di fronte, come mai, certe volte, pur sapendo cosa dire, al momento di dire effettivamente una cosa, ed esprimerla in un certo modo, non si riesce a dirla, quella cosa. Come mai parlare, pensare (forse), è una delusione continua, un tradimento implacabile, una fatica bestia. L’uomo, col garbo e l’imbarazzo che derivano dal venir investiti di un compito, per così dire, filosofico, cerca impercettibilmente di schermirsi (quasi facendo spallucce col pensiero), in fondo – dice – lui non ha risposte, egli è solo un lettore, seppur di mestiere (l’attore in scena è il filosofo del linguaggio Brice Parain). L’attesa, l’insoddisfazione della ragazza sono tali da fargli comunque cercare di istruire un discorso, di pescare, tra i suoi libri, una storia edificante, forse una morale.

Comincia, dunque, così:
Scrive Dumas, in Vent’anni dopo, che un giorno Porthos si travestì da bombarolo e andò a piazzare un ordigno – non importa dove né per quale motivo – in un sotterraneo. Bene, Porthos va, posiziona la bomba, accende la miccia e fa per scappare. Mentre si allontana gli viene però un pensiero inaudito: gli viene da pensare (a lui, il grosso e un po’ tonto Porthos). Per qualche curioso motivo si mette a ragionare sullo strano miracolo che gli consente di mettere un passo avanti l’altro per camminare. Così facendo comincia a rallentare, a osservarsi procedere, mettere i passi uno in fila all’altro fino a fermarsi, incapace di proseguire. Intanto la bomba esplode, il locale gli crolla sulle spalle. Lui, grande e grosso com’è, resiste qualche giorno ma a un certo punto schiatta.
Porthos si mette a pensare, quando meno se lo aspettava, quando non serviva, a sé e cosa fa muovere il suo passo. No, pensiero ed azione non divergono, il fatto è che il pensiero è di per sé una forma di azione, e quando l’oggetto della sua attenzione diventa il moto, quello reso visibile dall’attraversamento dello spazio da parte di un corpo, si realizza una specie di corto circuito, una vera detonazione. Il movimento che raddoppia se stesso non si potenzia, si arresta, non si moltiplica, si inceppa. Così la mente, che pure sotterraneamente incide sull’avvio e il sostegno dell’impegno cinetico di un corpo, quando espressamente si focalizza sul miracolo che concorre a innescare, lo rende inabile a proseguire. Quando il pensiero getta lo sguardo su di sé, e si rende consapevole del proprio operato, qualcosa si arresta, ma non nel pensiero, che è condannato a proseguire, bensì nel corpo, nel suo aspetto superficiale, che decade. Il pensiero deve continuamente procacciarsi un contenuto, un objectum mentis. Ciò che si ferma è il corpo, il corpo che lasciato a sé, all’azione inconsapevole della mente, scopre un’armonia nel suo modo di essere strumento del movimento, quale categoria specifica del meccanico. Ma il corpo, divenuto oggetto della mente si cosifica, si secca e muore.

Quale migliore metafora di questa bi-implicazione psico-motoria che la storia di Porthos, il grosso e un po’ tonto moschettiere che un giorno, per seguire il pensiero, ci resto secco? A volte, ha ragione Anna Karina, sarebbe meglio tacere.

Gruppo Dir.Ti

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In evidenza: Brice Parain in una scena del film di Jean Luc Godard, Vivre sa vie, 1962, 85 min., B/N, Les Films de la Pléiade