Un mondo di barriere verdi, di corpi e foglie roventi, di sabbie abitate da operosi granchi violinisti e da tarantole che stridulano al piede dei gigli sulla spiaggia, fra i piedi della morte. Cieli azzurri in cui si leva un aquilone, col quale vola verso il sole o la luna il senno perduto del giovane menomato nell’intelligenza che lo porge al vento, osservandone la rotta attraverso un barattolo sfondato.
In questo universo di cose abbacinate dal sole, di esseri viventi all’ombra dei tristi tropici si muove l’orizzonte poetico di Crane nella raccolta Key West. Un’opera poetica di fulminante bellezza dove il sole, l’astro deificato nei culti antichi e oggetto di una personale venerazione da parte del poeta di Garrettsville, è fonte di energie violente, esplosive, in grado di portare al massimo grado, nel trionfo dei Caraibi, la sua potenza.
Tutto è continuamente vivificato, tutto è amplificato, e i sensi si confondono, l’intelligenza può smarrirsi. Ci si abbandona a una voluttuosa sonnolenza, a un’assenza senza dolore, in quest’isola senza cancello che pure custodisce i dobloni dei pirati. Chi non ricorda gli atolli, l’isola della Tortuga, ovvero l’Isola del tesoro e altri approdi d’avventura di cui hanno tanto narrato Robert L. Stevenson ed Emilio Salgari?
Questo è il rifugio di Crane, una specie di ultima spiaggia per sognare, lontano dal moralismo, dall’indifferenza. Ma è pace apparente. Tutto vi è estremizzato, e perciò acquista una scomoda ruvidezza. Eppure in questa ruvidezza si può dimenticare la pressione abituale dell’angoscia, si diventa sensibili a emozioni nuove e si possono dimenticare le desolazioni e solitudini metropolitane. La radicalità della natura certo sconvolge e debilita, sorprende e devasta. Solo i nativi potrebbero resistere. Ma nativi della terra, pur sempre, mentre è in alto che Crane, da qualcuno definito il Lorca e lo Shelley d’America, sembra voler tornare con i suoi simboli, con la poesia, vorticando come il serpente verso il vertice del cielo.
Il simbolismo di Crane trova ai Caraibi un nutrimento diretto dall’ambiente di vita. Luoghi di splendide acque e cieli, sole e uragani, frequentati da pescatori di spugne e contrabbandieri, avventurieri, commercianti di banane e rum. Ma anche artisti e intellettuali, come Hart Crane – i cui genitori possedevano una piantagione – Ernest Hemingway e Wallace Stevens, Ralph Ellison, Elizabeth Bishop, Tennessee Williams, Robert Frost, e James Merrill, scelsero questi luoghi come una loro dimensione privilegiata, prima ancora che il progresso vi portasse regolari collegamenti navali e terrestri attraverso la lunga strada oceanica che sul filo delle onde unisce alla terra ferma della Florida questo lunghissimo arcipelago.
Caraibi, quindi, come luogo di prossimità alla natura intesa come ponte verso la trascendenza, e come margine ultimo che separa la realtà esterna – i corpi umani e gli elementi naturali del paesaggio oceanico tropicale – dalla realtà interiore o spirituale. Sullo sfondo della distinzione fra natura e cultura, i Caraibi sono luogo di interrogazione delle forze della natura per scorgervi le tracce di un disegno superiore alla portata umana, e anche luogo fatale di confronto con il reale, rappresentato dalla morte nuda e cruda che subito si affaccia sulla scena fin dalla poesia inaugurale, O Carib Isle!, e la poesia opera il riscatto simbolico, supera la morte e riavvicina la natura in un mondo umanizzato. I cinque versi stupendi di O Carib Isle! dedicati al martirio delle tartarughe, Havana Rose, Eternity sono grandi esempi, in una condanna dell’atrocità di fronte a Dio e alla storia, di questa profonda rielaborazione.
***
testo tratto dall’Introduzione a Key West