Sono imperscrutabili i percorsi della noia che conducono, spesso più direttamente di ogni attivismo, alla riscoperta dell’essenza fantasmatica di alcuni oggetti, al profumo di certe idee sopite.
Così accade, per esempio, senza avere coscienza di questo accadimento, di posare lo sguardo su una vecchia video cassetta: “El ángel exterminador” di Louis Buñuel, e qualcosa, in maniera ancora lontana ma promettente, comincia a tornare. Torna alla mente la storia di un film, francamente incredibile, innanzitutto.
Un gruppo di amici, legati dall’appartenenza di classe all’alta borghesia, più che da un genuino sentimento di parentela spirituale, rimane intrappolato nel salotto del padrone di casa dove stava consumando il rituale della socialità altolocata, fatto di pregiati sigari offerti, convenevoli untuosi e amabili chiacchiere (appunto da salotto); il tutto piacevolmente accompagnato dalla musica di un pianoforte a coda.
Arrivata l’ora in cui il buon gusto vorrebbe che si liberasse il padrone di casa dall’onorevole onere di dover intrattenere ancora i suoi ospiti, tutti tentennano sull’uscio, incapaci per una strana ragione – o per l’assenza di essa –, di lasciare il salotto.
Finisce che si accampano su poltrone e divani, costretti a svestirsi di giacche e scarpe, tra lo sgomento e la vergogna generali. L’indomani il sortilegio continua; il giorno dopo il gruppo è ancora imprigionato. Si va avanti per un tempo indefinito, col salotto progressivamente trasformato, da luogo prediletto del decoro borghese, nel bivacco più sozzo e degradato che si possa immaginare. I gentiluomini e le gentildonne, discinti e abbrutiti dalla fame, appestati dal lezzo dei loro corpi e dei loro umori (depositati con “cura” in pregiati vasi Ming), si abbandonano alle violenze e alle pulsioni più sordide, degradandosi al livello più infimo dell’animalità, dimentichi del loro rango, completamente in balia del gioco infernale che li lega a quel salotto. Poi, all’improvviso, l’incantesimo si rompe, i personaggi ritrovano le medesime posizioni, le stesse parole della fatidica notte, quando l’incubo è iniziato; in massa si spingono oltre la soglia, divenuta ora valicabile.
Buñuel, lungi dal voler fornire un happy end, ripropone, esponenzialmente amplificata, l’angoscia derivante dal senso di circolarità che struttura il film. Nell’ultima scena i protagonisti, insieme con altri fedeli, si trovano in una cattedrale, dove si recita il Te Deum (disposto per ringraziare il Signore della libertà concessa ai prigionieri). Al termine della messa i fedeli si accalcano presso l’uscita, apparentemente senza poterla varcare, tra lo sgomento generale, anche quello – credo – dello spettatore.
La ripetizione, la circolarità, l’eterno ritorno, con tutto il carico di ossessione, angoscia e mistero che ne deriva, è la chiave del film; la chiave, in qualche modo, di una certa forma del ragionamento: quella che scopre, attraverso un incontro casuale (quello con una vecchia video cassetta, ad esempio), che lasciarsi andare tra le spire della vita è forse il modo migliore per trovare una strada, per riconoscerla propria, o forse dimenticarla e rilanciarne la ricerca, continuamente.
Agrado Fagmata
L’immagine è tratta da una scena del film L’angelo sterminatore (El ángel exterminador), regia di Luis Buñuel, 1962, Messico, 82 min., B/N