Arbeit macht klar

La Transparent Factory (Gläserne Manufaktur, letteralmente la “manifattura vitrea”) venne costruita, su progetto di Gunter Henn, dalla Volkswagen nel 2002. L’intento manifesto della casa produttrice di Wolfsburg era quello di rendere trasparente, visibile e auto evidente il processo di produzione delle sue auto. L’intento occulto, incoffessabile e rispondente al più puro principio di piacere (secondo la definizione freudiana di inestricabile commistione fra eros e thanatos) è quello di mettere in scacco la distinzione marxiana tra struttura (Basis) e sovrastruttura (Überbau). Nella Transparent Factory di Dresda non solo è possibile ammirare gli operai al lavoro sulle sontuose Phaetom o Bentley, ma si può assistere a un concerto di musica da camera, ad uno spettacolo teatrale, ad una mostra d’arte. Alla Transparent Factory si fa anche della filosofia, nella sua accezione salottiera di café philo. Chissà come suona la chiacchiera colta dei pensatori ospitata nel ventre della balena del capitalismo; sembra difficile immaginarla rivoltosa o perfino critica, più verosimile sarebbe figurarsela come una sorta di preghiera.

Fatto sta che in questo speciale esempio di architettura del compromesso, dove nessun conflitto è ammesso, l’estetica è quella neutrale (o indifferente) del post modernismo più storicizzato, e l’idea stessa di vivere associato scambia l’egualitarismo con i picnic per i dipendenti, la struttura economica di produzione di beni e la sovrastruttura culturale e sociale si fondono e convivono, almeno spazialmente, nello stesso luogo. Questo significa dare il ben servito a Karl Marx? Fornire la definitiva pacificazione del conflitto fra capitale e lavoro? Mostrare che il capitalismo aveva solo bisogno di fiducia nelle sue magnifiche sorti progressive? Che era solo questione di evoluzione del sistema e si sarebbe arrivati alla formula che bilancia perfettamente produttività e vivibilità del luogo di produzione?

La città che ospita questo capolavoro dell’edulcorazione, Dresda, ha in comune con la fabbrica di vetro alcuni aspetti essenziali. È, innanzitutto, una città del rimosso, dove le tracce della tragedia nazista e delle fiamme sono state cancellate dalle facciate delle sue chiese e dei suoi palazzi. Un restyling massiccio ha ripulito dai segni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, che funestarono la città dal febbraio all’aprile del ’45, le sue pietre barocche. Il suo volto, lievemente vitreo, è tornato a rifulgere la luce pallida della Sassonia. Il vetro, la trasparenza, la voglia di assomigliare a un paesaggio immoto, che non conosce le angherie della storia, sembrerebbe essere nel dna di questa città, come pure la finzione, la volontà di dimenticare la follia hitleriana e il sacrificio del progresso.

Alla fabbrica di vetro non sentirete il clangore delle macchine, non vedrete pennacchi fumanti, vi sarà inutile uscire dalla linea rossa che delimita il percorso per il pubblico visitante, per andare in cerca di depositi di rifiuti tossici, non ne troverete. La Volkswagen ha anche pensato di piantare circa trecento alberi nell’enorme parco che circonda la fabbrica, per emendare la colpa del nuovo insediamento. Ma alla fabbrica di vetro non si produce nulla, si assemblano solo manufatti provenienti da altri, più tradizionali, rumorosi e inquinanti stabilimenti.

Il tentativo di dialettica inscenato da questa soluzione architettonica inizia con delle civilissime scuse. Si chiede venia per il tempo mangiato, per lo spazio rovinato, per il mistero insalubre della produzione, per aver poco pensato alla comunità, alla sua educazione e al suo benessere. Ma non c’è tempo per le repliche, la dialettica – dicevamo – è finta. La trasparenza, la riflessività, serve per compiere una subdola assimilazione. Non solo quella che prima era la vita regolata dai tempi di produzione, ma anche del tempo libero viene sussunto dalla nuova struttura. Dalla Transparent Factory volendo si potrebbe non uscire mai, lo spazio lasciato dai macchinari di produzione si rende disponibile per ospitare la sovrastruttura del capitale. Quello che la produzione permette come suo precipitato, come immagine altra del capitale, ovvero la cosiddetta cultura, sorge dentro la fabbrica in un tentativo tolemaico di rinchiudere ogni aspetto dell’esistente all’interno di sfere invisibili. Dunque, lungi dall’essere totalmente chiara, auto evidente e offerente, la fabbrica di vetro è una grande trappola assorbente.

Posta ai margini di un parco tutto dedicato alle famiglie (con zoo, giardini di infanzia e ogni tratto urbanistico della felicità) sembra volersi smarcare da ogni attenzione. Nell’intenzione dei committenti essa vuole essere una enorme restituzione alla comunità: “Vi ridiamo il vostro spazio e il vostro tempo, cari concittadini, non prima di avervi mostrato come siamo cambiati e quanto il nostro lavoro somigli all’arte (della composizione di materiali etero prodotti)”. Sarebbe potuto suonare più o meno così il discorso dell’amministratore delegato della Volkswagen durante l’inaugurazione della fabbrica; subito dopo l’incantesimo della trasparenza avrebbe cominciato a diffondersi fra i curiosi avventori di quel luogo nuovo, rinnovato. La trasparenza, infatti, non ha solo la funzione di rendere visibile un luogo dall’esterno, ma di attrarre al suo interno attraverso l’enorme assenza di funzione che lo abita. Quel vuoto è il nostro segnaposto, ci aspetta per essere tolto.

Dentro la fabbrica si lavora sommessamente alla messa in forma di uno degli oggetti simbolo del desiderio di consumo: l’automobile, ma tale messa in opera del desiderio lascia inalterato il potenziale ulteriore di ricreazione: c’è un teatro, un cinema, l’agorà stessa riassunta dentro le pareti invisibili dello stabile. Questa fabbrica è l’ultima propaggine della nuova Dresda, senza soluzione di continuità ospita quelle forme deliziose della convivialità che le amministrazioni pubbliche, stroncate dai deficit di bilancio, non possono più sostenere. Cittadini rientrate in fabbrica, fatevi ammaliare dal piacere sottile del lavoro preciso asettico e afono di un esperto operaio che assembla un gioiello di meccanica ed elettronica. Sembra quasi una musica, non credete? In fondo Hamelin non è così lontana.

Carl Grim

In evidenza una veduta della Transparent Factory Volkswagen a Dresda