La discrezione, all’etimo, è una certa qualità della moderazione, una sorta di equanimità dello sguardo che si realizza a partire dalla determinazione dell’essenziale, del bastevole distinto dal superfluo, individuato anche alla distanza. Essere discreti vuol dire passare al vaglio il flusso veloce delle cose, frapporvi l’ostacolo parziale del necessario e raccoglierne il risultato.
Che questa virtù (e tale va considerata, come ogni arte della distillazione) possa connotare di sé anche un sentimento incontrollato, per quanto sottile, quale il fascino è fenomeno che non deve troppo sorprendere, non solo perché un campione dell’inatteso e del sotterraneo come Buñuel ne ha rivelato il necessario accostamento.
La seduzione modesta che promana non dall’epopea onirica di una classe sociale in declino, ma da una pratica di tortura è al centro di questo articolo. Il martirio di cui parliamo è quello cui è sottoposta Santa Caterina d’Alessandria nella grande tela dipinta dal maestro del rinascimento lombardo Gaudenzio Ferrari (XVI sec.). Non si tratta di un piacere morboso, del voyeur che si compiace nel contemplare la placida, supplichevole figura della santa in procinto di essere stritolata dentro la morsa di due ruote ferocemente dentate. Non è in questione il godimento dello spettatore che osserva i due colossi movimentare, con poderosi muscoli, il meccanismo della violenza; e neanche c’entra il sollievo per il provvido intervento di un angelo che piomba sul boia e gli astanti giusto in tempo a manifestare il retto Volere (anticipando iconicamente di mezzo secolo un’altra discesa angelica, quella del dipinto caravaggesco Sette opere di misericordia).
Il nostro piacere è molto più discreto, riposa su un discernimento, una separazione non totale, interrotta e in qualche modo manifesta. Essa si origina in virtù della circostanza che ha sottratto allo sguardo dei visitatori la tela del Ferrari (esposta nella pinacoteca di Brera, originariamente nella sala XV) senza per altro confinarla in oscuri cubicoli dei depositi. Il martirio di Santa Caterina è infatti sotto i ferri di un restauro certosino; protetto da pareti di plexiglass il dipinto non si è mai mosso dalla sezione del museo aperta al pubblico, si è solo reso più distante, intangibile e interessante. Il visitatore che si avventuri nella sala noterà appena la Venere voluttuosa di Peterzano o la sontuosa pasta pittorica di Campi che ritrae, con l’acribia del tassonomo e la gola del gourmet, pollivendole, fruttivendole e pescivendole. Al flâneur già in estasi (o rintronato, a seconda dei casi) dopo la visita a Gentile da Fabriano, Bramante, Bellini e Mantegna, quello che si para innanzi è una curiosa struttura trasparente, segno dell’intrusione della clinica nel regno della museologia, della riparazione in quello della conservazione.
Questo doppio luogo fatto di concentrica esposizione e occultamento rapisce subito lo sguardo. La grande tela pare minacciata, più che protetta, da tubi, carrelli di acciaio, camici, pinze, ampolle. Solo l’abitudine a confondere linguaggi e ibridare contesti, a cercare un dialogo, spesso muto, tra l’antico e il sopravvissuto, riesce a non scalfire più di tanto la consapevolezza del visitatore. L’idea che possa trattarsi di un’istallazione d’arte contemporanea, di un codice – per quanto incomprensibile – ancora una volta estetico, lascia lo spettatore nel suo solitario torpore, a fluttuare verso il bookshop.
Ma la malia tentatrice di questo martirio, di questo vero e proprio teatro della crudeltà ordito da un pavido imperatore romano (Massenzio, o più probabilmente, Massimino) e dagli aguzzini suoi stipendiati, non dipende dalla novità di vedere – per molti è la prima volta – gli strumenti ignoti del maquillage che permette ai dipinti di continuare a parlare con colori nuovi e brillanti a generazioni di turisti. Per altro, il feticismo di molti cultori della bella pittura vede probabilmente questo agghindare i dipinti e darli in pasto a una masnada di incolti come un martirio privo di fascino.
E non è neanche l’inatteso scherzo di un artista contemporaneo – quasi che a questo rappresentante della categoria non resti che l’ironia per continuare a praticare la professione – a generare interesse di fronte alla doppia protezione del martirio. La calotta trasparente che ingloba la tela di Gaudenzio Ferrari non è un’opera posta a confezione di un’altra, ma una struttura funzionale al suo mantenimento. All’interno dello spazio praticato in questa teca si affaccendano, durante il normale orario di visita della pinacoteca, speciali tessitori, riparatori delle originarie fattezze del quadro.
È vero che adesso il quadro non è fruibile (quale oggetto di consumo per i possessori del biglietto), seppur visibile resta interrotta la catena auratica che ci farebbe entrare in dialogo con l’opera. Il quadro rimane lì, apparentemente disponibile: già i primi progressi della ripulitura fanno rifulgere le vesti delle figure di una luce nuova (in realtà più antica, perché originaria). Ci stupiamo e congratuliamo del successo ma il quadro non è ancora per noi, è ancora lontanissimo dal nostro sguardo. E quello che più ci turba è che questo occultamento è funzionale alla sua nuova esposizione. Dobbiamo sopportare questa imperfetta visibilità perché in futuro possa ridarsi la sua completa disponibilità.
Ecco, in questo gioco di contrari, in questa compresenza di opposizioni paradigmatiche (esposizione-nascondimento, visibilità-intangibilità, vicino-lontano, etc.) consiste il vero martirio del dipinto e il suo più autentico fascino. Un fascino discreto, appunto, basato sulla distanza tra osservatore e osservato, sulla distinzione tra volere e differire, sul vaglio che questa interruzione stende sul campo della visione. Il risultato è una certa dose di essenza, una sintesi di contrari che elude la comprensione e lega a sé infallibilmente.
Non credete che un tale innocente e crudele divertimento sarebbe piaciuto anche a Buñuel?
M. Lanza
In evidenza: Gaudenzio Ferrari, Il Martirio di Santa Caterina d’Alessandria, olio su tela della prima metà del XVI sec., Pinacoteca di Brera, Milano.