Nel 1635 Carlo I Stuart re d’Inghilterra commissionò ad Antoon van Dyck un ritratto. Nulla di strano, tutto nella norma; il sovrano di una potente nazione che chiede all’artista più in voga di eternarne le fattezze sul supporto standard della fama: un sontuoso quadro ad olio. L’ignaro sovrano non contemplava però due fattori per lui incontrollabili: i rapidi rivolgimenti della storia e i moventi personali di un artista.
Di lì a poco più di una decina d’anni, nel 1649, a Carlo sarebbe caduta la testa, gliela avrebbero tirata giù a forza i suoi sudditi, per lo meno quelli a cui stava ormai stretta la figura assoluta di un re intoccabile.
Forse fu una specie di fortissima legge di gravità della Storia a decollare il povero Stuart, quella stessa che ancora non si sa bene come proceda, se per salti, cicli o semplici oblii. Fatto sta che con la decapitazione del re d’Inghilterra si esce di colpo dal Medioevo e ci si accorge che colui che cinge la corona e cura dalle scrofole, l’unto del Signore che distribuisce anelli medicamentosi il venerdì santo, è un uomo come gli altri, un uomo anzi la cui terribile morte rivela la natura infima dell’umano, per giunta. Nessuna investitura divina, nessuna delega irrevocabile, niente mette più al riparo la regalità dal tribunale della ragion popolare.
Quale ironico destino, per il re a cui cadde la testa per volere del popolo, venir immortalato dal maggior pittore dell’epoca, quel van Dyck così a suo agio nelle corti e nei salotti aristocratici, con la testa addirittura triplicata.
La composizione del quadro in questione è infatti singolare, ma non un unicum nella storia dell’arte. Van Dyck era considerato da molti, in primis dal suo regale committente, l’erede naturale di Tiziano, l’autore tra l’altro di una famosa Allegoria della Prudenza. Il quadro del pittore veneziano, compiuto settant’anni prima e oggi conservato alla National Gallery di Londra, ritrae tre teste umane, un vecchio, un uomo maturo e un giovane da tre prospettive diverse. L’allegoria è, ovviamente, quella del tempo, composta secondo la simbologia neoplatonica ed ermetica. Ma non è per investirsi del ruolo dell’eroe epigono della pittura che van Dyck riprende una composizione di Tiziano; la prospettiva triplice sulla testa di re Carlo serve al pittore fiammingo per realizzare uno studio a tutto tondo sulla figura umana seguendo una commissione forse per lui anche più importante di quella regale. Negli stessi anni, a Roma, Gian Lorenzo Bernini aveva ricevuto e accettato l’invito di Carlo I Stuart a realizzargli un busto.
Il ritratto di van Dyck servì perciò da modello al Bernini, fu una pittura al servizio della scultura, il tentativo di infondere nello spazio pittorico il senso della modellazione totale. Certo, da sempre si considera la pittura sub specie sculpturae, come una maniera di invadere lo spazio oltre la tela lavorando sullo spessore della materia pittorica per praticare l’operazione alchemica di rappresentazione del reale (e non del verosimile). Eppure, il limite del supporto rimane, la pittura resta legata alla tela come al suo trascendentale – limite e insieme unica condizione di esistenza. L’unica strada di imitazione della scultura, per la pittura, consiste nel rincorrere tutte le prospettive di un oggetto nello spazio, tentativo inutile che si conclude con la cancellazione dello spazio vitale del pigmento gettato sulla tela.
Che dunque van Dyck avesse dipinto un triplice ritratto del re Carlo con lo scopo, forse non esclusivo ma probabilmente per lui più interessante, di fornire al collega Bernini una prospettiva agevolata sul prossimo soggetto del suo busto, ci sembra quanto meno rilevante. Come una sorta di rivincita della pittura su una forma d’arte che, all’interno del vincolo della naturalezza, avanza un’istanza di totalità.
Difficile immaginarsi una scultura al di fuori dello spazio che le gira attorno, del vuoto che la modella, dello sguardo che la ricostruisce, a tutto tondo. Difficile non pensare, a proposito di un artefatto che si inserisce nel mondo e spesso ci rimane con l’autorevolezza di qualcosa di naturale, a una specie di miracolo. Eppure non c’è nulla di miracoloso in questo, l’opera scultorea non rispetta i dettami della creatio ex nihilo, la sua presenza è il risultato di una ri-modellazione della materia a partire da un preciso disegno, da una galassia di bozzetti preparatori che ronzano attorno all’immagine prima di intercettarne i confini precisi. Ed è in virtù di questo processo generativo che dobbiamo spiegarci il ritratto di Carlo I fatto da van Dyck; molto più che una semplice committenza regale, esso fu uno scambio tra colleghi e, forse, il tentativo di un pittore fiammingo di dimostrare la superiorità della propria arte.
Oliver Head
In evidenza: Antoon van Dyck, Triplo ritratto di Carlo I; conservato al castello di Windsor, 1635.