Blow-Up

Ovvero l’omicidio nell’epoca della sua riproducibilità tecnica

Quello di Antonioni è un film sulla distanza, sul movimento che la determina a partire dal suo opposto, l’avvicinamento massimo. Distanza del protagonista dalla realtà, da un immaginario effimero che il suo mestiere di fotografo contribuisce a sorreggere. Ma la distanza è, più ancora, la cifra esistenziale di quest’uomo, che in uno slancio di rivolta – o di noia – si avventura in un parco della east London per ritrarre la vita vera che sciama tranquilla fuori dai teatri di posa dove brutalizza le modelle come manichini. Come Guy Debord aveva chiaramente visto, il mondo moderno, quello rialzatosi dal secondo conflitto mondiale a suon di iniezioni di capitale per il consumo, è un’enorme accumulazione di spettacoli. Thomas, il protagonista della pellicola, è uno strumento di questo nuovo mondo, con le sue immagini sponsorizza degli stili di vita, modi di essere così effimeri e così legati alla merce da formare un sinolo chiamato brand. Comprare per essere come quegli individui affascinanti e irraggiungibili che ammiccano dalla copertina di una rivista o da uno schermo televisivo, senza chiedersi se ci serva davvero quel dato oggetto che indossano, mostrano di possedere o cui misteriosamente alludono questi strani personaggi della réclame, è questione vecchia, ampiamente discussa, anche se forse non risolta. Quello che ci interessa è che Thomas, un personaggio che reca nel nome le stimmate del dubbio, pur vivendo di immagini patinate sia un personaggio distanziato, lacerato al suo interno tra la necessità di mettere insieme un tot di scatti a settimana per una famosa rivista, e l’aspirazione a girare lo sguardo su qualcos’altro, su qualcosa di vero, di dirompente e reale come può esserlo la fine di un’epoca (siamo nella Swinging London degli anni sessanta).

Ad essere però il motore immediato della storia non è la collisione tra doveri e desideri antitetici; Thomas è messo alla prova dal destino del suo nome e da una speciale nemesi legata alla sua professione: assiste, non percependolo, ad un omicidio, lo registra con la sua macchina fotografica. Saranno necessari numerosi ingrandimenti successivi per dimostrargli che dietro un cespuglio, che incornicia il margine di un suo scatto, si cela il punctum nascosto della fotografia, del film e della sua stessa vita. La canna di una pistola spunta tra le foglie e punta alla testa di un uomo che si era appartato in intimità con una donna, forse l’amante.

Ma come non basta la distanza, quella tra l’essere e il dover essere, tra la credenza e il dubbio, per risolvere il problema della volontà, così un ingrandimento fotografico, da solo, non è sufficiente per chiudere la partita con l’aspirazione alla verità. Non basta entrare nella grana oscura delle cose per trovare la soluzione ultima ai problemi, questo tipo di ricetta proietta sempre oltre ogni approdo della meta alla verità. La procedura dell’ingrandimento, isola il contesto, o meglio ne riproduce uno nuovo dimenticando il precedente, costringe ad un orientamento nuovo, nel tentativo di rinominare gli oggetti della composizione, di cambiare posto ai segnali che determinano la sensatezza dello sguardo.

È una procedura di perdita più che di conquista, quella del blow-up, un palinsesto che confonde l’orizzonte della visione, in cui si sovrappongono restrizioni successive con la scusa della maggiore precisione. Il processo di avvicinamento alla conoscenza si compone di due momenti: ingrandimento e pratica della distanza. Occorre affondare nell’ingrandimento e poi trarsene fuori per riconsiderare le cose alla luce della scoperta ispirata dal blow-up.

Thomas non avrebbe scoperto nulla se non avesse compiuto entrambi i movimenti; non avrebbe assistito né registrato nessun omicidio, per quanto la massima risoluzione di un suo scatto sembrasse mostrare, agli estremi della stessa traiettoria di tiro una pistola nascosta in un cespuglio e un uomo avvinto alla sua amante, se non lo avesse considerato alla luce del suo studio, di una giornata trascorsa tra gli stessi crucci di sempre.

Walter Benjamin lamentava, in un suo famoso saggio – così famoso da non aver bisogno di essere menzionato – come la riproduzione tecnica delle immagini avesse sacrificato l’aura; si trattava di un avvenimento epocale, la caduta di una forma di relazione dell’uomo con la natura fondata sul richiamo che chi è guardato sente provenire da chi guarda. L’aura è quella che corre lungo la medesima traiettoria di tiro di uno sguardo, è il colloquio visivo che ogni riproduzione tecnica delle immagini esaurisce.

Dal nostro punto di vista, però, Thomas guadagna qualcosa dalla perdita dell’aura; scopre un omicidio, ne possiede le prove – con buona pace delle eccezioni mosse al concetto di ingrandimento e alla sua concreta riferibilità ad un fatto esistito prima di venir sottoposto all’esplosione del blow-up.

Nonostante il fotografo fosse presente sulla scena del crimine, al momento dello sparo, nel pieno possesso della facoltà aurale, non si accorse di nulla, dovette perdere del tempo, maturare distanza per avvicinare di nuovo le cose e scoprirle, benché inscheletrite di una certa capacità di dialogo, più eloquenti del solito.

Laura Zarcorta

Immagine in evidenza: L’«amplesso fotografico» fra David Hemmings (Thomas) e Verushka in Blow-Up, film di Michelangelo Antonioni; Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti, 1966