Atletica affettiva

Le pagine che Antonin Artaud dedica al lavoro sull’attore nel suo “Le Théâtre et son double” sono di capitale importanza per capire quale sia il compito del performer sulla scena e quanto tale “servizio” sia stato tradito dall’insegnamento impartito nelle Accademie. Le forme espressive organizzate dalle istituzioni danno infatti voce a sentimenti spesso stereotipati, depotenziati e calati in un linguaggio, in un sistema di relazioni e perfino in un apparato scenico, del tutto superfetato da una razionalità partigiana e borghese. Un processo, questo, stabilitosi in secoli di prassi scenica e divenuto la consuetudine di un mestiere destinato all’intrattenimento piacevole di una certa fetta di popolazione – di solito la più istruita e innocua – e sempre meno incontro sacrificale.

Artaud, lo sappiamo, critica aspramente, rivoltosamente, tutto ciò; la scoperta di pratiche sceniche altre, in grado di dare un volto non pacificato a quell’altrove che abita le nostre profondità, va esattamente nella direzione di una rifondazione del teatro occidentale. È proprio osservando altre maniere espressive (segnatamente quelle della tradizione Balinese) che l’inventore del théâtre de la cruauté arriva a formulare la sua teoria del corpo “doppio”: una metodica diversa di suscitare l’emersione viscerale delle emozioni agendo sul respiro e sul profilo organico dell’attore. La carne, opportunamente stuzzicata – contratta e rilasciata seguendo un ritmo sapientemente orchestrato dalla forza pneumatica -, diviene forma esteriore (visibile e intangibile a un tempo) di una consistenza spirituale. È l’anima stessa dell’attore che viene fatta parlare attraverso il corpo duplicato. Supponendo che esista una via organica per raggiungere le profondità dell’essere si ascrive all’anima una natura materiale. L’anima, cioè, un’entità invisibile, deve essere fatta di qualcosa di tangibile se risulta sensibile ad una stimolazione corporea guidata dalla evocazione fonetica.

La voce è la chiave di questo ricongiungimento; appoggiandosi sulla phoné l’attore materializza l’invisibile (ma non immateriale) spirito. Quello che vediamo agitarsi – usando una figura che non ha più nulla di umano – non è il corpo “normale”, ma una manifestazione spirituale evocata attraverso altri canali, che praticano un’arte impossibilitata a trovare spazio nelle scuole di teatro. Si tratta di un’emersione apparentemente incontrollata, che si fa strada attraverso le viscere e i polmoni, i muscoli e le arterie. Le espressioni così manifestate non hanno nulla di convenzionale – almeno sono molto lontane dalle nostre convenzioni sceniche: sono le voci brute di un’interiorità non più irreggimentabile.

Il corpo sul quale l’attore agisce è dunque un doppio, un fantasma; nei suoi gesti prende forma una rappresentazione emotiva che, seppur filtrata dalla sua sensibilità, si poggia su precisi – oggettivi – riferimenti organici. Per effetto di questa tecnica l’ostensione dell’inavvertito diviene percepibile sacrificando la persona ordinaria dell’attore, scambiando una dimostrazione con un inabissamento. L’arte attoriale, auspicata e praticata da Artaud sulla base di questa nuova conquista del corpo, è dunque un’arte della scomparsa: quello che si mostra non si vede, nell’individualità dell’attore non possiamo più vedere una realtà asservita alla ragione ma un simulacro stagliato sopra la materia; un’anamnesi scomposta, indemoniata, difficilmente tollerabile dal teatro borghese.

Infatti, quello che, seppur mantenendo alcuni caratteri comunitari di aggregazione, è divenuto – come dicevamo – uno spettacolo, una forma di intrattenimento che non richiede più alcun sacrificio da parte del pubblico, vede come una forma aliena all’arte drammatica, totalmente illeggibile, insostenibile e insignificante, l’emersione dell’anima nella veste di sentimenti carnei. Il teatro di Artaud si rivolge proprio a questo uditorio per configurare la sua crudeltà, sottoponendo a sguardi inorriditi l’oscena natura, insensata umorale e informe, dell’animo umano. Lungi dal costituirsi come una forma olimpica, ordinata e chiara, di pensieri ineffabili, ciò che ci abita dal profondo emerge, cannibalizzando un corpo al quale si sono vietate per secoli espressioni autenticamente impure, con caotica e incontenibile presenza.

Questo magma impalpabile di conflitti ed espressioni disarmoniche, stridenti e grondanti dolore, trova nel teatro – nel teatro artaudiano – l’unico luogo in cui una tale esposizione resti tollerabile (seppur ingombrante). Attraverso canali che inutilmente si è tentato di ostruire con forme e maniere controllabili erompono figure oscene dalle quali vorremmo distogliere lo sguardo. Ma non ci è dato farlo: legati completamente agli stessi canali di emersione di un tale fenomeno, lasciamo filtrare tutta questa insopprimibile vitale sofferenza, che monta sul corpo duplicandolo e facendolo sparire. E benché dichiariamo inorriditi di non comprendere un tale spettacolo, solo così di nuovo torniamo a compiere un antico sacrificio e investiamo, in un momento non più spettacolare, una parte essenziale di noi; comune, seppur oscurata, a tutto l’umano sentire, coestensiva alla vita, naturalmente teatrale.

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In evidenza: un famoso ritratto fotografico di Antonin Artaud.