Le macchine di Jean Tinguely non servono a niente. Non compiono lavori, non assolvono cioè al compito ordinariamente assegnato alle macchine. A ben vedere neanche sorprendono o divertono; la monotonia dei loro movimenti, la reiterazione ossessiva del gesto – che si compie per effetto dei congegni meccanici -, crea un’attesa sempre delusa, comunicando un senso di spaventosa ineluttabilità. Dovrebbe dunque stupire che tali oggetti inutili – non belli né impressionanti – vengano esposti in un museo. In realtà ci insegnano molto sulla capacità degli uomini di inventare mondi dai quali l’idea di uomo è esclusa.
Ciò che dimostra come tali congegni non siano pensati per l’homo faber è che manca, in prossimità della loro figura, lo spazio vuoto in cui una mano possa inserirsi per mettere la macchina in azione. È insito, infatti, nella natura della tecnica il costituirsi, per un verso attorno ad una funzione, per l’altro di sagomarsi nei pressi del gesto che porterà la sua funzione a compimento. Pertanto, questi dispositivi attestano la loro autosufficienza nell’ignorare l’interazione umana, nell’agire senza funzionare, in totale assenza di un progetto altro da quello che vediamo compiersi e che ci lascia interdetti. Vedere una catena appesa ad un’asta rotante che, quasi fosse la materializzazione meccanica di Sisifo, continua senza senso ad agitarsi, e a cozzare con le sue maglie contro un muro già segnato dalle tracce del suo inesausto grattare, lascia basito il pubblico; non sorpreso né entusiasta, semplicemente gravato dall’impressione di trovarsi in un girone rispondente a un contrappasso sconosciuto, sfuggito alla nomenclatura dantesca.
Se l’architettura di questi speciali ingranaggi realizza la strada più breve perché la materia inerte, sostenuta da una fonte di energia, possa movimentarsi e realizzare un lavoro, la sua forma corrisponde esattamente a quella di un corpo vivente, vi allude senza combaciarvi, senza entrarvi in contatto, anzi realizzando in questa distanza la sua indipendenza e totale alterità. Il suo limite si adagia, pronta ad essere accolta, nelle forme dell’uomo, ma non attingerà mai all’universo della strumentalità. Siamo perciò di fronte a delle realtà auto sussistenti, rispetto alle quali l’uomo, tutt’al più, può figurare come spettatore. Il segno dell’alternatività del mondo costruito da simili apparecchi è il suono che accompagna la loro agitazione. Benché prodotto dalla cortocircuitazione di ingranaggi, dal vibrare di rondelle, dall’oscillare di pulegge, le musiche delle macchine di Tinguely non sono mai banalmente iterative. Il clangore dei corpi metallici, lo squillo dei loro spigoli, il tonfo dei fardelli che si portano dietro come ostaggio residuale dell’impigliarsi del mondo, per quanto ritmato è sempre dissolto in ampi silenzi, negli intervalli che corrono lungo la complessa, inutile, catena di ingranaggi che anima la macchina e la fa essere al di là di ogni funzione.
Non servire a niente e tuttavia essere: ecco la grande liberazione di questi manufatti. Impossibilitati perfino ad essere oggetti ornamentali sono destinati ad abitare delle riserve solitarie quali unico spazio in cui il loro mondo possa legittimamente valere. Di fronte a ciò, noi, gli spettatori, siamo ammessi alla spicciolata, veniamo introdotti, come in una nazione straniera e straniante, in un parco che non ci aspetta. Qui, all’uomo silenzioso e attonito, non resta nulla da spiegare. Quello che vede non trova posto nel suo immaginario, in quelle strutture non esiste uno spazio a lui destinato, in cui indossare le macchine e farle essere qualcosa per sé. Non gli resta che assistere allo spettacolo nell’unico spazio in cui gli è consentito sostare, ai margini dell’azione, smarrito e inerte – anch’egli, ma in maniera diametralmente opposta – come macchina senza funzione.
Nicolas De Fansall
In evidenza: Un’opera di Jean Tinguely.