C’è un’ambivalenza di fondo negli oggetti che Joseph Beuys ha lasciato, come residui delle sue azioni, in musei e fondazioni sparsi per il mondo. Di fronte ad alcuni di essi si prova un senso di perdita irrevocabile, di sconfitta. Non aver assistito alle performance che li hanno visti all’opera li consegna all’inerte status di relitti di un’epoca infinitamente perduta. Per altri manufatti, invece, il valore documentale non impoverisce la capacità dello spettatore di recuperare la forza dell’azione beuysiana. Quasi si trattasse di un esperimento mentale, il cui senso non può essere intaccato dall’aver o meno assistito al suo effettivo realizzarsi, bastano le foto, i testi, gli oggetti di “scena” per rendere ancora detonante il gesto che queste testimonianze ricordano.
Gli oggetti di Beuys lasciano così al visitatore – più o meno informato – un vago sapore che oscilla fra l’aridità e la grande potenza poetica. A un primo sguardo sembra che nulla, se non una materialità inerte, sia rimasto intrappolato nelle teche; questo sentimento convive, però, con una sorprendente, quasi intrinseca, propensione alla riattivazione che sveste questi manufatti del loro aspetto di reliquie laiche e li rende strumenti parlanti la lingua sospesa dei simboli. Un simile fenomeno dipende dunque dall’uso metaforico che di tali oggetti – spesso i più comuni – viene fatto.
Non si tratta di semplici ready made, di objet trouvé rifunzionalizzati, destituiti del loro valore utènsile per essere riconsegnati ad una rete di forze contemplative, al cosiddetto campo dell’arte. È vero, c’è un tentativo di raddoppiamento in quest’atto, nella maniera in cui l’artista tedesco prende in carico strumenti e corpi e li fa agire, ma questo procedimento non consiste nella svestizione del loro senso abituale e nella contemporanea epifania di una latente caratura estetica. Sarebbe insomma scorretto rubricare l’intervento beuysiano come l’ennesimo esempio della regola estetica che vuole ricavare, per attrezzi banali e sostanze vili, un diritto di cittadinanza nel terreno dell’arte. Esaminare ritagli di feltro, once di miele, manciate di grasso, pezzi di ardesia e arnesi di legno come strumenti di un’azione non canonica significa guardarli con occhi diversi da quelli che considerano lo scolabottiglie di Duchamp. Pensate come metafore, invece, queste cose ordinarie comunicano un senso traslato, non immediato eppure capace di essere diffusamente comprensibile. Diventano cioè l’architettura portante di vere pratiche sciamaniche moderne.
Come si sa, infatti, molte delle azioni di Beuys furono guidate dalla volontà – utopica e non ideologica – di modificare la società avanzando, attraverso l’arte, un’alternativa politica; un progetto che intendeva aumentare la consapevolezza politica dei giovani cresciuti durante il nazismo in un paese ancora diviso e percorso da forti tensioni. Rispetto a questo programma “massimalista” – ad onor di cronaca forse fallito – quello che è raccolto nei musei non è però che un dato di contorno, che vale come un prezioso strumento per conservare e consolidare una memoria storica degli eventi artistici e della straordinaria figura che li ideò. Questi documenti, in definitiva, restano al margine di qualcosa di avvenuto e di irrecuperabile, innanzitutto in virtù del diverso contesto storico politico e sociale. Eppure qualcosa della potente ancora si riverbera in questi detriti; proprio nella distanza e nell’assenza cui alludono consiste la loro forza, la loro qualità documentale ma anche il loro intrinseco valore di amuleti.
Alla domanda: quale senso avrebbe rimettere in scena una di quelle performance oggi? Si può tranquillamente rispondere che non si tratta di rimettere in scena un gesto prodotto per dissolversi, ma di continuare a conservare le tracce del suo passaggio. Solo così i frutti di tali azioni possono continuare a ripercuotersi sul presente: alimentando l’immaginazione che ne riorizzonta produttivamente l’ologramma; custodendo un prezioso interiore lutto per la loro scomparsa.
Arnold Kleve
In evidenza: un’immagine tratta dalla performance di Joseph Beuys “I like America and America likes me” (1974).