Gli studi condotti da Giuseppe De Nittis sulle falde del Vesuvio sono dei piccoli miracoli pittorici. Eseguiti tra il 1871 e il 1872, dal pittore che forse meglio seppe ritrarre l’aria fuligginosa e madida della brulicante Parigi fin de siècle, rappresentano dei magnifici esempi di riappropriazione della luce da parte di uno sguardo profondamente mediterraneo. Li si incontra, quasi casualmente impilati, in una piccola sala di Villa Reale, splendido esempio di neoclassicismo milanese. Vi si inciampa improvvisamente da una distanza impropria, troppo ravvicinata per comprenderne subito l’esercizio miracoloso.
E poiché lo spettatore, di primo acchito, è così prossimo ai quadri da non poter rilevare altro se non la natura rapida e semplice della pennellata, il primo involontario giudizio si appunta sulla discutibile maestria del tratto pittorico. Nel breve spazio di pochi centimetri di tela l’artista non è stato messo alla prova dalla riproduzione di particolari di miniaturistica precisione, preferendo lasciare veloci e apparentemente distratti segni. Solo degli appunti, quindi? La sintesi di un dialogo rapido della mano col taccuino di viaggio? Basta fare qualche passo indietro per ripensarci, guadagnare la giusta distanza per tramutare degli schizzi preparatori nella rappresentazione verosimile del lunare paesaggio vesuviano. Le immagini che De Nittis trasse dalla sua spedizione emergono allora con una qualità quasi fotografica. Ma la sorpresa ottica di veder mutare un tratto, considerabile in prossimità del supporto che lo ospita come nuda traccia materica, nel suo riferimento è esperienza inafferrabile, o meglio risulta difficile indicare, nel percorso a ritroso verso la giusta distanza, il luogo esatto in cui la pittura cessa di essere tecnica e materia e diviene l’oggetto della rappresentazione, si identifica con ciò che si vuole illustrare. Dovremmo poi considerare cos’è questo mondo per cui la pittura sta-per, costituendo ogni suo gesto all’insegna della filosofia “come se”. Il problema pare essere quello di una diversa declinazione del concetto di rappresentazione.
La pittura, per quanto cerchi di smarcare il monito alla verosimiglianza, muove i suoi segni in rapporto a questa meta estetica. Anche la ristrutturazione o invenzione del rapporto col reale si costituisce come palinsesto sul fondo della coincidenza della copia alla “cosa” che vuole riprodurre. Ma il mondo è invece innocentemente se stesso, neutra datità senza medium? Non è forse il “corpo”, ogni corpo, inteso come materia, paesaggio, territorio, il luogo di affioramento di qualcosa di invisibile, che non può essere rappresentato se non attraverso un tramite simbolico, metaforico, che ignora la verosimiglianza? Emerge dunque il paradosso della situazione pittorica: di un’arte che coltiva, consapevolmente o meno, il mito della verosimiglianza, prendendo di mira un mondo che è rappresentato dal corpo, dalla terra, dalla materia, solo in maniera simbolica, non potendo esserci manifestazione possibile per quel fondo oscuro che è lo spirito.
Leontìne Auteuil
In evidenza: Giuseppe De Nittis, Sulle falde del Vesuvio, 1872, tela/ pittura a olio 13 x 17.5 cm