Molte sono le cose che si potrebbero dire delle sculture di Adolfo Wildt; dei volti digrignanti, delle mascelle estruse, delle concrezioni marmoree che trasfigurano elementi anatomici in luoghi di invenzione di nuovi topos estetici, nuove forme nascenti dal dialogo astratto di linee e volumi.
Quello che sorprende però, ancor più della trasformazione di un orecchio nel gorgo voluttuoso di incavi e vuoti, della metamorfosi di una fronte nell’antro cavernoso torreggiato da inusuali escrescenze ossee, è come questa simbolica innovazione formale, che fa del volto il campo aperto di rimodulazione dell’idea stessa di persona, trovi compimento, soluzione e quasi pace in una tenue, delicatissima espirazione.
I volti di Wildt, che siano quelli patiti di una giovane vedova, o quelli bellicosamente sofferenti di un prigione, risolvono la tensione materica che ne ridisegna le fattezze nel lieve spazio di separazione delle labbra. Tutto il trambusto dei caratteri, il livore delle forme, il panneggio dei muscoli, si scioglie, magicamente condotto dalla mano dell’artista che descrive non solo la nuova realtà della materia ma anche l’itinerario della sua scoperta, nel punto di uscita dello sguardo dall’opera, localizzato proprio lì, sulle labbra.
La potenza, la trattenuta forza, l’aspro risentimento, la disperata rassegnazione, la contrita indignazione, assumono una forma propria anche nell’ultimo tratto del volto, incurvando curiosamente, personalmente, la bocca di quelle maschere di un teatro nuovo, degne espressioni dell’Europa volta al massacro del secolo breve.
E se l’ovale, che pure Wildt sa così delicatamente scolpire (basti pensare alle sue vedove o alle sue sante), viene riformulato dalle forre del terrore, dalle sporgenze della volontà e dai grumi del dubbio, basta considerare il leggero taglio che sorge poco sopra il mento per sentire tutto cambiare di tono, quasi spirare una calda sottile e gelida aria di miracoloso equilibrio. Senza questo sforzo pneumatico, senza il sapiente re-indirizzamento del soffio fuori dalle sue statue, il loro vigore, la levigatezza e la terribile bellezza svanirebbe. Fallirebbe la composizione, le mancherebbe il naturale contrappeso, l’architettonico contrappeso, senza quel soffio risolutivo. Non si tratta di una ipotesi estetica, occorre disporsi a sentirlo, questo effluvio pneumatico, percorrendo la superficie dei volti, esplorando le pieghe, scendendo i pendii di forme nuove come sanno esserlo i paesaggi sconosciuti. Prima di uscire dal mondo lattiginoso e silente delle statue di Wildt bisogna guadagnare, attraverso il respiro, un viatico eterno, un continuum aeriforme entro cui si confonde lo svanire e il persistere delle anime.
Sara Fatti
In evidenza: Adolfo Wildt, “Vir temporis acti”, 1913, Collezione Franco Maria Ricci.