Nel gennaio del 1932 Antonin Artaud, di ritorno dal Cinéma du Panthéon, recensisce entusiasticamente sulla Nouvelle Revue Française il nuovo film di un trio comico americano recentemente apparso sugli schermi europei: i Marx brothers.
Il poeta e attore francese descrive la pellicola appena vista con queste parole:
“Una cosa straordinaria, come la liberazione per mezzo dello schermo di una particolare magia che i consueti rapporti fra parole e immagini di solito non svelano” – e, continua – “se esiste uno stato caratteristico, un distinto grado poetico della mente, che si può chiamare surrealismo, Animal Crackers (il film in questione, n.d.r.) vi partecipa interamente”. [1]
È difficile dire in cosa questa magia consista; essa non è solo cinematografica né propriamente teatrale, allude semmai ad una perfezione poetica a venire, che riconquista la valenza originariamente lacerante dell’umorismo e ne fa uno strumento di liberazione totale. L’entusiasmo di Artaud per la potenza con cui, in film come Animal Cracker e Monkey Business, l’umorismo riconquista la sua bellezza atroce inquietante e tragica, ci rivela che dietro le gag dei Marx brothers c’è molto di più. C’è, innanzitutto, la liberazione dell’inconscio, degli attori e del pubblico, che cade come la donna ribaltata a forza sul divano da uno di questi folli giocolieri; c’è una forza rivoluzionaria nel turbinio ritmato dagli sgangherati passi di danza con cui un clandestino abbranca una fanciulla solo perché la vuole; c’è una potente anarchia sotto i colpi con cui Groucho sculaccia una nobildonna capitatagli sotto tiro.
Tutto quello che avremmo voluto vedere o non ci saremmo sognati si potesse mettere in scena – in termini di rovesciamento delle convenzioni e irrisione dei costumi – interviene a disgregare integralmente, e poeticamente, la realtà. Quello che rimane addosso allo spettatore è una certa inquietudine della mente cui va dato, secondo Artaud, il nome di surrealismo.
Artaud, in questa nota sui fratelli Marx, sembra dimenticare una parola: comicità. Intendiamoci, le gag di Groucho, Harpo e Chico sono esilaranti; quello che colpisce, però, è altro: l’avvento, attraverso i gesti da saltimbanco e la raffica di giochi di parole dei fratelli Marx, dell’era surrealista. Come ogni procedimento magico di alterazione della realtà anche questo ha bisogno di una tecnica per prodursi. È una pratica di lavorazione sul tempo, che infrange il ritmo comico, dilatandolo, infittendolo di eventi o semplicemente dimenticandolo che coglie Artaud. È un processo di accumulazione, di affastellamento incontrollato di battute e corpi, è il lento slittamento del senso quello che innesca la deriva della ragione e costringe a ridisegnare i confini del mondo sub specie veritatis.
Il pubblico ride, non può farne a meno, depone le armi, guarda sbigottito l’assoluta mancanza di senso e verecondia di questi tre matti. Ma non è una risata come tutte le altre; i denti stridono, le mascelle si irrigidiscono: questa non è la solita comica alla Charlot o alla Buster Keaton. È l’irrisione del bon ton, l’inversione dei valori, alla mescolanza dei generi e degli stili. È la fine del mondo.
Groucho inanella una serie di fandonie sull’altra, Harpo inizia a farsi coccolare da una giunonica signora, facendo leva sulla sua faccia d’angelo, per poi metterle le mani addosso e trattarla rudemente; Chico prende posto al pianoforte e snocciola una serie di note, la colonna sonora sconquassata di questo quadro surreale, un graffio ritmato sulla superficie irriconoscibile della realtà per cui non si può far a meno di ridere e chiedere pietà. Ma non minacciate il pianista, non chiedetegli di smettere, don’t shoot the piano player, lui non sa dove si va.
[1] Antonin Artaud, Ouvres Complètes, Tome IV, «Le Théâtre et son Double», 1938 Editions Gallimard, Deux Notes. I., pag. 165
Morte Marte
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