Premio speciale della giuria a Cannes nel 1992, El sol del membrillo è un lungometraggio del regista spagnolo Víctor Erice. Pellicola per molti versi inclassificabile, ben più di un documentario d’arte, riesce nel duplice compito di neutralizzare lo sguardo della macchina da presa – facendo un parsimonioso e delicato uso delle tecniche cinematografiche – e di tendere un filo tangibile tra lo sguardo di un artista e il suo oggetto del desiderio.
Ambientato in un tiepido ottobre madrileno, il film registra con assoluta neutralità il processo creativo del pittore spagnolo Antonio López García, impegnato a dipingere membrillo (un melo cotogno, n.d.r.) nel giardino del suo studio. Si sarebbe quasi tentati di tirare fuori la parola “realtà” per descrivere il paesaggio che fornisce l’impasto visivo pronto a scorrere negli occhi dello spettatore. Nessuna dimensione sembra alterata. Il tempo ripreso dalla camera è lo stesso di quello che si svolge oltre la camera: quello necessario alla costruzione del telaio su cui verrà issata la tela, quello dedicato a inquadrare l’oggetto della rappresentazione entro il reticolato prospettico, quello per preparare il corpo del pittore alla giusta postura, alla cattura dell’immagine. Poi, l’agguato al membrillo prosegue per piccoli colpi, segnando impercettibili tacche di biacca sul tronco, sulle foglie e sui frutti, ovunque il sole autunnale faccia repentini e meravigliosi affacci tra le fronde. Ma la preda è destinata a sfuggire sempre, a smarcare continuamente il tentativo di presa. La rappresentazione è un evento impossibile, la presenza non è che uno stato informe della coscienza di chi guarda.
Il pittore, disponendosi al ritratto, decide di fare a meno delle tecniche preparatorie del disegno e della rappresentazione fotografica. Il suo compito impossibile è quello di ritrarre la vita di un albero al colmo del ciclo vegetativo, quando il flusso linfatico ha ingrossato i frutti, mettendone a repentaglio l’ancoraggio ai rami; quando il sole, nella sua veloce corsa ottobrina, forza per un attimo i rami e riempie foglie e frutti di irraggiungibile bellezza.
Non si tratta tanto di fare una pittura del movimento, né solo di rendere conto della cangianza del tempo, ma di fornire un nuovo medium per la presenza. Nel fallimento di questa idea, della sua non trasponibilità sulla tela, si consuma il dramma del film, il suo nucleo tematico, il casus belli di una registrazione per immagini dell’invisibile. Non basta porre al centro della visione un oggetto, veicolare su di esso ogni circuito dell’attenzione, per rendere completa giustizia al suo essere. Il sole che passa veloce sulla superficie dell’albero non lascia segno tangibile, non si ferma da nessuna parte; l’aspetto nuovo con cui riveste le cose non è un fenomeno oggettivo, riportabile. Il sole fa il suo giro, trova per un attimo nell’albero la sua scena, poi scompare. Mentre si attende il suo ritorno si scopre che l’albero è già cambiato, si è avvicinato alla terra, pronto a deporre i frutti ai piedi del tronco; altri punti verranno irraggiati, diversi da quelli inquadrati dall’occhio del pittore. La bellezza non rispetta l’esprit géométrique.
L’impossibilità di rappresentare la presenza matura nell’animo del pittore, nel cuore stesso della sua umanità, come la più onesta e vera lezione del suo mestiere, come una semplice verità dell’esistenza: la vita è quella cosa che passa quando si cerca di rappresentarla.
Rayo Sintacto
In evidenza: un’immagine dal film “El sol del membrillo” (Spagna 1992, colore, 138 m; regia: Víctor Erice).