Feticismo. Alle origini del desiderio

Posto al confine fra conscio e inconscio e fra umano e sovrannaturale, il feticcio, concretizzandosi in una singolare – irripetibile e fittizia – sintesi di intelletto e affettività, risponde originariamente alla minaccia dell’imprevedibile, rielaborando traumi individuali ed esigenze spirituali comunitarie. In ciò esso mostra un aspetto fondamentale di quella che potremmo chiamare l’euristica dell’umano sentire, una modalità di relazione con il mondo che appartiene tanto al tempo antico quanto alla dimensione del contemporaneo.

Infatti, prima ancora di rappresentare una fase evolutiva della concezione teologica umana, l’esigenza del dispositivo feticistico, inteso come strumento di comunicazione diretto e non simbolico tra mondi distinti e collimanti all’infinito (per asindeto) quali il divino e l’umano, è un’aspirazione unificante dell’esperienza degli uomini e attinente a quella che potremmo chiamare la natura umana.

L’uomo, nel suo essere dimidiato, smarrito tra due tendenze contraddittorie: un vivente sensibile che mira al trascendente, è continuamente tentato di originare delle sintesi, delle soluzioni suscettibili di aggiustamenti continui e nuovi orientamenti che abbraccino in teorie inclusive il reale. È come se l’incertezza costitutiva di questa specifica maniera di stare al mondo moltiplichi dei poteri invisibili: lo spazio e il tempo sono irti di forze da incardinare entro sistemi mitici con l’ausilio di strumenti e pratiche inscritte in tempi e luoghi ritualizzati. L’irregolarità, così divinizzata, diviene presentabile, non più così dolorosa, e rappresentabile tramite il feticcio.

La sintesi che il feticcio realizza – benché necessaria allo sviluppo della sensibilità umana, sorta di prima risposta al mistero del mondo – è però provvisoria, e subito seguita dal secondo grande paradigma di pensiero umano, quello scientifico. È un dato di fatto che l’esperimento feticista, ovvero la scoperta di un oggetto plusvalente, si carichi di un’intenzione correlativa, e contraria, a quella scientifica: infatti, se tramite il feticismo la natura – con il carico di incomprensibile timore che la attraversa – viene umanizzata, con la scienza si tenta di fare esattamente il contrario, cioè di spiegare le esperienze umane alla luce delle leggi naturali.

All’interno di questo schema tendenzialmente salvifico, il feticismo – la venerazione di cose a “statuto speciale” – si caratterizza perciò come un segno contraddittorio che non riconosce gli elementi strutturali della sua realtà. Il feticcio non distingue, cioè, tra significante e significato: non “significa”, non “sta per”, è esso stesso una manifestazione del divino, nel momento esatto in cui è investito del suo ruolo e si dispone a divenire non più oggetto qualunque ma oggetto di culto. La funzione vicaria tipica del segno, almeno per come Saussure la descrive, non è perfettamente adeguata a rispondere della natura del feticcio: da un lato, in quanto immagine del mondo soprannaturale il feticcio è una sorta di “altrove in loco”; dall’altro in esso si materializza il frutto di proiezioni tutte umane, di alienazione di paure e potenzialità che solo per una finzione l’uomo pone come esterne a sé.

L’ambiguità è dunque la cifra specifica del feticcio: non solo segno agglutinato, ma oggetto che non distingue tra mondo umano e naturalità, tra esperienza e desiderio. Il feticcio è dunque un attrattore di forze, un detrattore del pericolo, un simulacro in grado di stimolare il desiderio e di farsi intermediario unico dell’appagamento.

Non stupisce quindi che, come segno indiziario della separazione di una presunta essenza dall’integralità del mondo e dell’uomo, dal suo corpo fisico o sociale, l’ambiguo statuto che lo governa ha sempre richiamato le attenzioni di grandi pensatori, da Marx a Freud, da Comte a Mauss, da Baudelaire a Benjamin.

Non stupisca che ancora oggi di feticcio e di feticismo si continui a ragionare.

per saperne di più andate alla pagina di Feticcio, la nuoca uscita della collana Sproni

In evidenza: M. Pistoletto, “Venere degli stracci” (1967).