La nebbia silenziosa dell’animo

La noia, scacco della ragione, sopore dell’animo, paralisi della volontà, stato d’animo prodotto delle banalità mondane, ha l’aspetto di un distacco, di una rinuncia, di un monito e di un’ascesi. Ma è anche la porta di un abisso, del mondo senza enti inseriti in un progetto, disponibili al desiderio, varco aperto su una realtà nuda e, in quanto tale, perduta. Essa, tuttavia, segna anche il termine del ciclo delle ripetizioni, è un “arresto” tragico che pone fine alla commedia e alla prigionia della ripetizione infinita nella nevrosi. Giocate le carte della coscienza e dell’intelletto su cui si è appuntato lo sguardo della filosofia, di fronte a una posta così alta che mette in discussione il senso e i fondamenti dell’essere, sono chiamati in causa altri strumenti di conoscenza, basati sull’analisi dell’inconscio.

Si flectere nequeo superos, Acheronta movebo, ebbe a dire Freud con un verso di Virgilio, alludendo alle profondità della psiche esplorate dalla psicoanalisi. Ma la visione psicoanalitica della noia, sia pure originale e geniale, rimane un’ipotesi, che rinvia essa pure a qualcos’altro di più comprensivo. Dato per acquisito che tale progressione in ascesa verso una ragione superiore sia un processo infinito, e che infiniti anche siano i saperi interpellabili nel merito, restano tuttavia almeno due questioni aperte.

La prima verte sul perché la noia compaia e perduri, faccia visita incessantemente all’uomo – usando per manifestarsi anche lo scenario della natura su cui egli si proietta, in un gioco di rimandi speculari – per meglio mostrare, a chi sa vedere, le sue radici e le sue molteplici raffigurazioni, migrazioni, trasformazioni; la noia, in profonda e inevitabile osmosi con la natura, vibra nel canto delle cicale e in esso corre verso l’eternità gelando la tarantata in un attimo prodromico della crisi, comanda uno sciame d’api immobile e immenso che contempla i fiori senza estrarne i pollini, si inserisce nell’interstizio fra il prima e il dopo in un immoto presente.

La seconda questione, collegata alla prima, riguarda lo statuto psichico e sociale della noia, e le possibilità di intenderle facendo ricorso allo studio delle diverse culture e sensibilità, all’arte e alla fantasia, la cui potenza fondatrice e mediatrice pervade questa situazione di tensione e di conflitto, e le dà espressione e stemperamento. Nella noia si scontrano e si mescolano ragione e irrazionalità, desiderio e ripulsa, sogno e realtà, i registri diurno e notturno della vita psichica, identità del singolo individuo e condizione umana universale, distacco e partecipazione, solitudine e competizione. In questa chiave di lettura la noia potrebbe ben immaginarsi come espressione della personalità saturnina del creatore, del poeta, dell’artista, soprattutto quando le tinte dell’umore contemplano, dopo i fasti silvani dell’eros dionisiaco, quelle della malinconia così riccamente rappresentata da Dürer.

Una personalità eccentrica e talora bizzarra sì, ma oggettivamente estenuata dal compito immane e impossibile di dominare la materia che gli oppone resistenza, la mediocrità e l’indifferenza che ostacolano il suo volo. La noia sembra allora un altro modo per significare la nostalgia di un mondo ideale e irrappresentabile, mai pienamente attingibile, e che essa ci ricorda sempre essere una nostra patria, una casa amata e sempre sognata, per quanto evanescente e inafferrabile rimanga, mentre siamo soli e altrove.

La noia sembra dire di un nostro sentimento di estraneità rispetto al mondo o adombrare che nel nostro esserci è iscritta una colpa, una mancanza, che non è conseguenza di nessun atto colpevole, ma che deriva dal suo fondamentale essere gettato nella discontinuità, nell’inautenticità. La sua terribile tensione in bilico fra Tutto e Nulla rispecchia la nostra condizione di spaesamento e solitudine nell’alternarsi di terrore e beatitudine, l’indecidibilità in cui ci dibattiamo, povere piccole grandi cose in un cosmo di creature e sfondi giganteschi. La migliore rappresentazione di questa nostra condizione contraddittoria di grandezza fatta di volontà e dignità senza difese e armi, di quest’altezza di pensiero prossima a smarrimento e impotenza, la troviamo forse nei Prigioni di Michelangelo, nelle disperanti sterminate spazialità di Piranesi nelle sue Carceri d’invenzione, nello sbigottimento della pittura di Füssli di fronte alle antichità classiche, nelle visioni di Blake, così distanti dalla banalità del mondo.

Si entra così, sul filo di queste fantasie e visioni, nella dimensione del sublime, per una trattazione del quale, nelle sue diverse articolazioni rimandiamo, a Giuliano Briganti.1 La noia sarebbe allora immaginabile anche come una rappresentazione e un al di là del limite, il superamento necessario di sé, dei confini della ragione, delle terre esplorate, nel viaggio verso mete lontane o trascendenti. Solo questo risultato sarebbe il giusto compenso per lo sforzo compiuto: quello di vivere da uomini. La noia sarebbe allora la finis terrae delle convenzioni e delle mistificazioni, il punto di partenza verso l’ignoto, il nuovo inizio liberato dalla ripetizione.

Il brano è tratto dalla “Postfazione” alla prima uscita della collana Sproni dal titolo “Noia