Dire che Raymond Roussel sia stato un personaggio atipico non è un’affermazione da prendersi alla leggera, come un’abusata caratterizzazione pubblicistica. Lo stupore che aleggia intorno alla sua figura è diffuso, pervasivo, innegabile: dal curioso modo di condurre la propria vita, ritiratissima e trincerata dentro mille manie, ai suoi libri, tanto misteriosi e difficili da generare un vero culto post mortem, ogni cosa sembra architettata per fare di lui uno “stravagante”. D’altronde tutto sembrava destinarlo a questo: miliardario, crebbe nel lusso e negli agi dei salotti aristocratici parigini; la sua favolosa biografia narra di un giovane delicato e pieno di manie, con una madre a dir poco eccentrica che adorava e da cui ereditò un cronico stato ipocondriaco e la passione per i viaggi. Fu un viaggiatore sui generis, moderatamente curioso ed eternamente insoddisfatto, solitario e monomaniaco; mise tutte le sue ricchezze al servizio di un carattere quanto mai originale e di una fama che non arrivò mai.
Nella sua roulotte superaccessoriata Roussel girò mezzo mondo, visitandolo nell’unica maniera in cui la sua sorprendente fantasia lo riteneva tollerabile, cioè praticando il viaggio immobile, il turismo senza contatto. Per quanto se ne sa, Roussel, che fosse in Egitto, a Tahiti o a Palermo (dove morì), abbandonava raramente la sua camera e se lo faceva era solo per confondere mondo e vaudeville, vita reale e letteratura popolare. Nell’alveo del suo guscio protettivo, sullo sfondo cangiante delle mete più esotiche, lavorava senza sosta a cesellare le sue frasi bifronti, cercando per ore il nome di un personaggio. Lì proteggeva la sua delicatissima salute, curando i fragili nervi con pericolose e acrobatiche miscele di barbiturici; lì riusciva a riattivare il miracolo estatico della sua creazione poetica. Il mondo rimaneva fuori, come si confaceva alla sua indole di vero aristocratico, estraneo e magnetico, quel tanto che da esso vi traeva si deve al suo procédé, un metodo compositivo che, malgrado lui, ha fatto scuola: una tecnica di agguato che eccedeva le sue stesse forze, che rappresentava lo scatenamento delle furie del linguaggio.
L’atipicità del personaggio fa il paio con la sua atopicità: Roussel è un átopos, un individuo fuori luogo ovunque. Incapace di trovare una collocazione nel mondo letterario e, prima ancora, di uscire veramente dal dorato mondo dell’infanzia e del suo lignaggio. Le scarsissime vendite dei suoi libri e l’incomprensione del grande pubblico lo portarono alla depressione, alle cure mediche e, infine, alla droga; l’entusiasmo dell’avanguardia, che non aveva cercato e che non comprendeva, lo fece sentire ancor più isolato e gli fece toccare con mano l’incontrollabilità del suo unico e potentissimo agente creativo, la lingua.
Roussel è, dunque, un locus solus nel panorama letterario internazionale, la sua opera un hortus conclusus ricco di stranezze, di meravigliose invenzioni e terribili irrisolte tensioni. Roussel è una terra incognita, sideralmente distante dalle categorie e consuetudini del mondo letterario e di un certo tipo di modernità. Usa il magniloquente verso alessandrino per inanellare meticolose descrizioni di objet trouvé nel casellario dei ricordi bourgeois; scrive romanzi abbandonando ogni senso di proporzione delle convenzioni letterarie e disperdendo la narrazione in un labirinto di aneddoti, rassegne di spettacoli ed enumerazioni di oggetti senza utilità. Le storie senza sviluppo di Roussel sono vere carceri d’invenzione in cui viene frustrata ogni funzione narrativa, l’idea di tempo processuale è assente e l’azione si disperde senza evoluzione. Schiacciati sotto una luce priva di ambiguità i personaggi non maturano, sono corpi a una dimensione che non gettano ombre emotive. Eppure, in questo apparente deserto comunicativo, in cui non è permesso estrarre valori o moventi morali, qualcosa accade. In questa riduzione dell’edificio romanzesco alla sola valenza iterativa, quella pulsione a ripetere un atto e a riproporre una situazione che è infantile e insieme antichissima volontà di scongiurare la morte, attecchisce il suo personalissimo gusto per la parola arcaica, il culto della grammatica, la sua ortomania, la sua frustrata gloire.
Brano tratto dall’introduzione a “Locus Solus” di Raymond Roussel, prossima uscita della collana Narralia.