Il film di Martin Scorsese After hours – premio per la miglior regia a Cannes nel 1986 – è l’oggetto non improprio di una lettura psicoanalitica. Appartiene a quel sottogenere noto come “yuppie nightmare cycle”, una via di mezzo tra il film noir e la screwball comedy che andava tanto di moda ad Hollywood negli anni ’40. Il protagonista, Paul Hackett, un malinconico programmatore informatico, abbandona in una notte tutte le sue certezze, preda di coincidenze incredibili e delle minacciose avances di strani personaggi femminili. La vicenda è mossa da questo segreto motore: la rincorsa sempre rinviata della soddisfazione sessuale e la contemporanea fuga dal reiterato tentativo di evirazione. Sullo sfondo uno sconosciuto quartiere notturno newyorkese, abitato da attrici, artisti, cameriere, ladri, barman: l’altra faccia di una città catapultata dal piano urbanistico a quello simbolico per diventare strumento di illustrazione di un setting onirico.
Paul è un uomo profondamente solo, uno yuppie nella Manhattan degli anni ’80. Lavora per la grande forza del nuovo millennio. L’economia liberista, la de-materializzazione del lavoro, il nuovo mercato digitale, questo è lo scenario del potere in cui informatici e agenti di borsa consumano la propria esistenza. Ma non è questo che ci interessa raccontare (forse neanche a Scorsese), non direttamente almeno. Nulla, in verità, in questo film avviene in superficie, tutto scorre sottotraccia, rivelandosi emblema di qualcos’altro. Così Manhattan, la città che risplende di grattaceli, è la metamorfosi urbana della sfera conscia e del sistema di regole dettate dal Super-Io. Sul piano simbolico, però, qualcosa tradisce questa limpida identificazione della città del danaro (che non dorme mai) col territorio del controllo, della logica e della veglia. Già solo le sue architetture distese verso l’alto sono un sintomo piuttosto chiaro di forti pulsioni inconsce. Accanto poi a quest’isola di olimpica chiarezza, apparentemente sottomessa ad una vigile sorveglianza, sorgono delle zone d’ombra, luoghi abitati dallo spirito onirico della notte, dove la popolazione sembra essere agita da impulsi altri, non riconducibili a quelli noti durante la veglia, traslati – per così dire – verso un altro ordine di significati.
Ma torniamo alla nostra storia. Una sera Paul incontra in un caffè una donna affascinante, Marcy, che lo abborda mentre sta leggendo Tropico del cancro di Henry Miller – più che un libro, come recita l’incipit, un “prolungato insulto, uno scaracchio in faccia all’Arte, un calcio in culo alla Divinità, alla Bellezza…”. È una donna misteriosa, sfuggente; tra le righe del suo discorso lascia cadere un invito. Si scambiano i numeri, lui però non riesce a segnarlo: la penna (chiaro simbolo fallico) non funziona. La sera stessa decide di raggiungerla nel suo appartamento. Perso in una notte senza fine il quartiere di SoHo, dove Marcy abita, è la perfetta figurazione dell’inconscio. Paul vi entra eccitato, sperando di trovare una soluzione transitoria alla sua cronica solitudine. Questo strano luogo, deserto e gocciolante, gli fa intravvedere la possibilità di agganciare il proprio desiderio. In realtà, come per una forza magnetica respingente (caricata della medesima polarità, ma in un ordine invertito), alla sua attesa sessuale corrisponde puntualmente l’offesa che minaccia la sua mascolinità. Tutta la vicenda è una sequenza di coiti rinviati: dal taxi che non riesce a pagare – perché la banconota gli vola via – al comportamento inspiegabile della ragazza, che prima lo invita e poi si nega, fino all’inutile tentativo di tornare a casa. I soldi che non ha per tornare a casa (il biglietto della metro è aumentato proprio quella sera), le chiavi lasciate in pegno ad un barista, il numero telefonico che non riesce a comporre, tutto parla il linguaggio noto della frustrazione del piacere.
Se questo non bastasse, il film è costellato di altri simboli, riferiti al tentativo di evirazione di Paul. Tutti gli episodi in After hours sono, in fondo, causati dalla fuga dai pericoli dell’evirazione. Così la sigaretta sospesa tra le labbra dell’artista dormiente, le trappole per topi intorno al letto della cameriera, il disegno nella toilette del bar (raffigurante un pescecane che evira il pene di un uomo), sono tutti segnali, a latere dello sguardo, di questa sotterranea intenzione.
Poi, in un’accelerazione sfrenata, al parossismo dell’eccitazione, quando il desiderio del protagonista viene schiacciato dall’orrore, e la sottile curiosità diviene incontrollato terrore, la struttura della narrazione rivela la sua natura circolare. La Ringkomposition, struttura poetica che ricongiungendo la fine all’inizio risulta allusiva ed evocativa di una concezione cosmica unitaria, serve a Scorsese per illustrare ancora una volta la realizzazione del sogno, il suo svanire nel luogo stesso che l’aveva visto sorgere, senza possibilità di recupero, senza che la ragione lo possa svelare, lasciando che l’oblio lo ricopra.
Come il giorno segue la notte, così Paul ritrova la via di casa; chiuso in un sarcofago di cartapesta, che come un esoscheletro ne ricopre il corpo le pulsioni e i movimenti, viene depositato davanti al suo ufficio a Manhattan, pronto a riprendere il suo lavoro, alla luce del giorno, nel tempo in cui cresce il desiderio della notte.
Max Donne
In evidenza: una scena dal film “After hours” (Fuori orario) di Martin Scorsese, 1985.