Pensare con De Martino vuol dire guardare alla vita heideggerianamente. Lungi dal configurarsi come una curiosa ed eterodossa costruzione del pensiero – magari compromessa dall’oggetto di indagine (la magia) – la prospettiva antropologica che si articola intorno ai fenomeni di possessione, fascinazione e fattura rappresenta solo un’ulteriore argomento a favore di una concezione filosofica sulla maniera dell’uomo di stare al mondo che la storiografia tradizionale ha imparato a chiamare esistenzialismo. La modalità umana dell’esserci – per seguire il lessico proprio di Heidegger – si configura infatti come non coincidenza con la natura. L’uomo, la più divina e fragile delle creature, non dispone naturalmente di un apparato organico-istintuale in grado di renderlo adeguato alla natura e sicuro del proprio destino. L’individualità della coscienza e la scoperta di se stessi nascono proprio dalla costante attestazione di questa inadeguatezza, della mancata corrispondenza tra atti umani e realtà del mondo. Questo statuto obliquo dell’umano, che definisce l’io come diviso tra materialità e aspirazione infinita (corpo e spirito, sensi e ragione) viene messa in crisi da eventi traumatici imprevisti, da quella che De Martino chiama l’intrusione del negativo.
All’interno di società arcaiche, dove la privazione di beni essenziali materiali e psicologici rende gli individui più fragili (forse più vicini alla propria essenza), incapaci di dare senso all’esistenza e di incasellare l’insolito entro le griglie di un sapere, l’insorgere dell’inatteso era suscettibile di far crollare tutto l’instabile edificio della persona. Questo perché il regime dell’esistenza di questi uomini si riassumeva in uno stato di latente crisi che alcuni eventi potevano rilevare come fondo ribollente. Il trauma non spiegabile che fa uscire dai cardini il mondo è all’origine del fenomeno di crisi della presenza. L’uomo, il cui stare al mondo è caratterizzato dalla distanza delle natura, dallo scollamento doloroso tra desiderio e necessità, scopre in questo interstizio esistenziale, in questo esercizio di equidistanza la propria occasione per essere. Mettere in crisi la presenza, esporsi all’assedio del negativo, significa piombare in uno stato in cui l’uomo non esiste e non può darsi. L’uomo, messo in crisi da eventi ingestibili, scandalosamente dolorosi, perde il controllo di sé, fa esperienza di uno stato definibile come “essere agito da”, descritto dagli atti magici della possessione e della fascinazione.
È in relazione alla magia che la riflessione demartiniana diventa un sistema interpretativo originale della psiche individuale e collettiva sopravvissuta in certi contesti culturali arcaici, miracolosamente sopravvissuti alla modernità. La magia, strumento di opposizione al negativo e di controllo della crisi, viene vista dallo studioso napoletano come un dispositivo tecnologico. Trattare la magia come una tecnologia pur sembrando un azzardo intellettuale non è un gesto del tutto improprio. Sebbene la strumentalità del dispositivo magico non si risolva nella soluzione di un concreto ostacolo; sebbene la logica che sovrintende al suo funzionamento non sia quella classica (edificata intorno ai principi di identità, causalità e non contraddizione); sebbene, infine, i suoi elementi funzionino in modo simbolico e non meccanico (non cioè riferito a un fine ultimo) la magia serve, nel mondo descritto dall’antropologo, come forma di protezione.
Il principio logico che sovrintende al funzionamento del dispositivo logico è quello del “così-come”. Attraverso la sua applicazione l’evento traumatico viene sollevato dal suo valore negativo, privato della sua attualità e traslitterato entro un orizzonte mitico. Entro questa prospettiva ogni imprevisto è escluso e gli accadimenti sono riconosciuti, pre-compresi e accettati come salvifici. Il fondo critico su cui poggia l’esistenza di un’umanità materialmente e psicologicamente misera viene da questo procedimento – noto come “destorificazione del negativo” – tacitato, ma solo transitoriamente, perché la crisi è la struttura esistenziale stessa dell’uomo (il suo trascendentale, direbbe Heidegger).
Nelle società arcaiche, visitate dall’antropologo nel dopoguerra, lo statuto della crisi dell’umano assume l’aspetto di parossistici gesti di individui non più padroni di sé, la cui esperienza è descritta come impressione di “essere agiti da”. La crisi della presenza, intesa come perdita della personalità sotto l’assedio di un negativo, è evento inspiegabile ma non inatteso. Come in un racconto mitico ci si aspetta, entro una dimensione che potrebbe dirsi inconscia, un evento che faccia saltare i cardini del mondo e lo renda non più riassettabile. L’uomo, quell’essere che fa della non coincidenza col mondo il suo quid est, si trova per ragioni ignote – per perdita terribile e transitoria della ragione – a smarrirsi nel mondo (a perdersi nella naturalità delle cose, riducendosi a cosa egli stesso) e a mancare perciò di raggiungere la propria individualità, intesa come coscienza di questa differenza.
La magia, dunque, nei suoi vari aspetti di fascinazione, affatturamento, ebetismo ascetico ed estasi parossistica agisce, quale tecnica simbolica rispondente alla logica del “così-come”, divenendo forma di protezione instabile contro l’oblio della presenza, la smaterializzazione della coscienza e il ritorno a un fondo preconscio dove non c’è uomo né storia ma informe energia che agisce contro la morale, fuori dai legami sociali, e fa oscena esposizione di tabù infranti.
Mart Holzwege
In evidenza: un ritratto fotografico di Ernesto De Martino.