La storia in cornice

Non c’è motivo di tornare se si dimentica da dove si viene

La cornice letteraria, figura narrativa che designa l’itinerario di perdita di una storia nei meandri dei suoi successivi rilanci, è un procedimento chiaramente illusionistico. Se il suo nome comunica un’idea di chiusura e di inquadramento, il suo procedimento pratica invece la perdita, la procrastinazione della fine, la perpetua continuità. La cornice, infatti, è una forma che si materializza per rendere visibile il transito di una storia. Senza la sua precaria stabilità non si potrebbe concepire il fluire inesausto né dare senso all’idea di fuga dalla morte che la narrazione infinita comunica.

Sherazade, iniziando a narrare per sfuggire la morte, sa che la fine può essere allontanata rilanciando sempre l’inizio, fino a dimenticare da dove si proviene. Tale doppio movimento intende la cancellazione dell’appena passato come correlato dell’iterazione narrativa, e suggerisce il sospetto che il materiale di una storia sia un universo finito, in rapido esaurimento, in cui il futuro di una narrazione possa compiersi con una traslazione, operando uno spostamento, una rimodulazione del materiale già usato. Stando a una simile considerazione non si può che sottrarre l’origine per raccontare il seguito. D’altronde, se non si può tornare indietro – se tornare equivale a morire – non c’è ragione per non continuare, per terminare. Una semplice legge, messa in pratica da capolavori senza tempo della letteratura mondiale come Le mille e una notte, Il Decameron, Lo cunto de li cunti, The Canterbury Tales, che sembra rilanciare la teoria de-costruttivista del mondo come palinsesto di narrazioni infinite. Nell’assenza di un fondo, nell’illusione di un terreno stabile, esistono solo successioni narrative, vicende stratificate, campi su cui insistono delle cornici come sintomi di altre voci, altre storie. È così che principi, marinai o semplici servi delle grandi narrazioni divengono testimoni di nuovi inizi del racconto, agenti delle concatenazioni sistematiche di una storia.

Ma il vero veicolo di diversione delle vicende è lo spauracchio della fine. Nulla come la morte ha in sé una potenza ricapitolatrice, quasi che per fare i conti con l’esistenza bisogna farne un cunto. Si rilancia continuamente una storia e in questo procedimento si perde la memoria dell’inizio. Nell’impossibile ricostruzione dell’origine ci si trova davanti ad un’altra vicenda, ad un altro medium narrativo che non porta le stimmate dell’inizio ma dell’infinito. Così, se il presunto inizio si risolve nell’indeterminata tappa di un processo immemore di narrazioni concatenate, le nozioni stesse di origine e termine perdono di senso e vana ne è la ricerca. La storia sta in cornice lo fa solo transitoriamente, la cornice è il formato narrativo entro cui il racconto prende un aspetto per poi abbandonarlo subito, perdendosi prima della prossima incorniciatura.

Come una belva costretta a saltare entro un ostacolo, come un animale che lascia delle tracce con la bocca e le cancella con la coda, questa correlazione infinita di storie cerca di entrare in un libro, è l’ossessione stessa della forma libro. I volumi di una simile pubblicazione potrebbero susseguirsi senza posa, senza potersi numerare, senza poter indicare il primo esemplare, l’evento da cui tutto ha avuto inizio. L’illusione dell’inizio Mille e una notte assume l’aspetto della storia di una donna capitata al cospetto della morte, costretta a diventare letteratura per non abdicare alla sua umanità, indotta a entrare di colpo in un flusso carsico di storie che non conosce fine. Quel fluire che solo la fine, come l’offesa che minaccia la continuità, può rivelare. E forse niente mai finisce, la morte non vuole fare il suo compito, soltanto insegnare altre derivazioni d’esistenza.

Codex Reverso

In evidenza: Ferdinand Keller, “Scheherazade und Sultan Schariar”, 1880.