Genealogia dell’immorale

Ciò che sorprende leggendo le prime pagine delle “giornate”[1] di Sade è la loro straordinaria ironia. Nella passione del marchese due polarità antitetiche (piacere e dolore) si fondono. Da sempre considerato un campione della perturbazione, un’eccezione infinitamente censurabile, Sade in realtà non esce mai totalmente dall’orizzonte di riferimento della morale comune. Quello che fa è invertire, rispetto al normale corso degli affetti, la polarità del desiderio. Come se si trattasse di una finta parete rotante, l’ironia sadiana consente di mettere in comunicazione due mondi opposti, incompatibili perché legati da un comune piano di immanenza. È così che dal salotto borghese, in cui l’educazione controllata e la temperie dei sentimenti sono la norma, si viene trasportati nel boudoir del libertino, dove violenza godimento e morte sono il viatico ascetico di un raffinato sregolatore dei sensi. La ragion d’essere di Sade – ancor prima di venir rubricata come patologica – consiste nella natura ancipite della sua passione. La sua ironia risiede in questo rivoltare l’ordine delle cose, nel mostrare l’artificiosa natura del senso, nell’illustrare una sconvolgente casistica dell’eros.

Come strumento esplicativo Sade usa l’idea di simmetria. Nella sue mani il dispositivo simmetrico manifesta una natura neutra. Quello che finora era stato una funzione di visibilità di principi etici, una forma al servizio dell’ordine morale e civile, viene piegato al servizio del male assoluto. Ciò che viene mostrato, entro il ritmo tessuto fra le corrispondenze degli elementi di due serie contrapposte, è l’architettura di un fascinoso orrore, la genealogia dell’immorale. Non è un caso, dunque, che l’opera di Sade vada considerata come un’architettura limpida da ammirare nel suo specchiato equilibrio: i personaggi sono precisamente individuati dai gusti e dalle necessità del piacere, le relazioni previste all’interno di un immaginario comprovato, i comportamenti regolati da norme stringenti. Il fascino estetico, la voluttà comunicativa in cui si esprime la neutralità dell’immagine simmetrica – il suo essere forma piegabile ad ogni contenuto – riesce ad estorcere un’adesione incontrollata anche nei confronti del sistema di legami e disvalori elaborati per tenere in piedi il grande gioco sadiano.

Al servizio del sadismo – parola che si ricapitola nell’unione duale di eros e thanatos – quattro rappresentanti della nobiltà Ancien Régime uniscono forze e sostanze per creare, in un luogo ritirato (il castello di Silling, nella Foresta Nera svizzera), una comunità del vizio, un mondo alla rovescia in cui virtù e nefandezza si stravolgono come in una bolgia dantesca. I quattro notabili, le loro quattro mogli, sedici giovani uomini e donne rapiti in giro per la Francia da quattro donne che fungeranno – durante il sordido soggiorno – da narratrici di scandalose storie, quattro “fottitori” e quattro “fantesche”; l’organigramma del piacere si riassume in queste cifre e ruoli. Il resto lo fanno, come detto, un luogo protetto e isolato, un codice di norme approntate per essere infrante e ricevere crudeli sanzioni. L’unico elemento indefinito è il tempo, la misura del troppo e del mai abbastanza. Il tempo è concepibile come conto alla rovescia, un tempo escatologico che si dissolve non appena il terreno della depravazione si rivela pronto. D’altronde, il desiderio è insensibile al limite, incapace di comprendere chiunque voglia opporsi alla volontà di procurare e procurarsi una via originale al piacere. Ed è per questo che i desideranti hanno bisogno di essere rinchiusi in un luogo ben formato, equilibrato e autosufficiente: perché possano in esso consumare la loro feroce entropia.


[1]Donatien Alphonse François de Sade, Le 120 giornate di Sodoma (Les Cent Vingt Journées de Sodome ou l’École du libertinage), romanzo incompiuto composto nella prigione della Bastiglia nel 1785.


Duvé Curblan

In evidenza: una scena tratta dal film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini, 1975.