Comprendere un’opera d’arte è un processo complesso, che prevede l’innesco di un elevato numero di facoltà, nonché operazioni spesso eterodosse ed a-metodiche. Questo vale, in maniera particolare, per la danza: arte mimetica par excellence. Proprio l’intenzione rappresentativa – l’allusione a qualcosa di esistente ma non altrettanto attingibile, per non dire dell’imitazione decisamente naturalistica – ingenera quel fraintendimento che allontana molti spettatori da un’adesione piena e convinta a questa forma espressiva.
Tali esitazioni sono di solito espresse con brutale ingenuità in questa forma: qual è il collegamento tra la coreografia e la coreologia? Dietro una simile domanda si cela, forse, una impropria richiesta linguistica: qual è la connessione tra significante e significato? Non è il caso di addentrarci nella questione, dibattuta da millenni dai contrapposti eserciti dei contrattualismi e dei naturalisti – da chi considera il rapporto tra la cosa e la sua espressione un arbitrio e chi, invece, vede in questa connessione un legame intrinseco.
Ponendo, infatti, che il movimento coreutico si configuri quale segno – dunque come entità ancipite, collegata strutturalmente a un riferimento occulto, o quanto meno non presente –, si tratta la danza sub specie semiotica. Ma è davvero così? È proprio necessario cercare al termine del muto gesto la materializzazione del concetto? Il linguaggio dell’atletismo ritmico significa necessariamente qualcosa o non realizza invece quella forma altra di espressione che alligna all’interno della lingua e genera nuove forme di comunicazione, forse un’eco di quello che Lacan nominava come manque?
Se dunque la danza, specie la sua riformulazione moderna, dà adito a questo tipo di resistenze intellettuali, c’è però una forma di ballo – una messa in scena del corpo come tracciante della musicalità dei gesti quotidiani – che rivela, meglio di altre, il processo aurorale di formazione di un nuovo linguaggio.
Nato negli anni settanta, il Tanztheater di Pina Bausch costituisce un unicum su cui vale la pena soffermarsi.
Il metodo compositivo della coreografa tedesca rivela chiaramente dove la danza attinga il suo materiale espressivo. Lavora su gesti canonici, la cui lontananza dal genere artistico li fa sembrare inservibili allo scopo o comunque lontanissimi dalla forma che si ritiene adeguata a quella particolare forma d’arte. L’innesco del processo di trasformazione che investe questi cenni avviene per mezzo di una reiterazione. La ripetizione esaurisce la forza e il senso assegnato a queste azioni dall’uso quotidiano, ne disinnesca il normale funzionamento e li dispone a un nuovo orientamento. Nel mezzo del circuito della loro esecuzione tali moti scoprono un valore nuovo, quello che gli fornisce il tempo, e rispetto al quale divengono una sorta di tracciante. Quali agenti del ritmo, questi segni appena trascorsi dall’abituale, scoprono forse una funzione più prossima al loro essere.
Nella replica, svestiti i panni del comportamento riconducibile a una funzione, pettinarsi i capelli, lisciarsi l’abito, buttare all’aria e poi rialzare una sedia, divengono elementi di una grammatica nuova, ancora da inventarsi.
Ecco, il problema semantico che all’inizio individuavamo come inabilitante il processo di comprensione dell’opera coreutica – e di conseguente fidelizzazione/adesione dello spettatore al suo progetto -, qui non si pone. Assistiamo all’emergere di un materiale piegabile ad un uso linguistico, ma possiamo anche fare a meno di interrogarci sul suo effettivo uso. Si rimane stupiti dalla metamorfosi del consueto ad opera del tempo – della perversione ciclica del tempo – per notare come questo movimento del tempo produce anche una dimensione spaziale. Nell’intervallo tra l’inizio e il compimento di un atto, si squaderna la scena dell’azione, il vero spazio in cui far avvenire qualcosa.
Le coreografie del Tanztheater sono dunque delle scritture mitiche, dei movimenti che separano cielo da terra e dispongono gli elementi a venir nominati. È così che dobbiamo concepire la ripetizione di un gesto canonico; come la morte e la contemporanea nascita di un mondo, un territorio sconosciuto nel quale bisogna riarmarsi di linguaggio e farlo agire dalla danza.
Hart Sicoritz
In evidenza: Una scena tratta da “Nelken” (1982)