(Harold) Hart Crane nacque a Garrettsville (Ohio) il 21 luglio 1899, e morì il 27 aprile 1932, lanciandosi in mare dal ponte della nave Orizaba. Le fonti parlano di morte per suicidio, ma la faccenda rimane poco chiara. Un particolare, su tutti, spiega i motivi di questa perplessità; ci viene dalla testimonianza di un amico del poeta, Waldo Frank, il quale afferma che Crane, prima di gettarsi in acqua, ripiegò accuratamente l’impermeabile.
Crane era nato da Clarence Arthur, un industriale dolciario, inventore delle caramelle “life savers” (quelle col buco, a forma di salvagente) e da Grace Hart Crane, una donna forse soggetta a disturbi ciclici dell’umore, con un rapporto col figlio, su cui scaricava le sue frustrazioni, improntato a controllo e manipolazione. I due si separarono quando Hart Crane aveva circa nove anni, per arrivare poi al divorzio nel 1916. I nonni di Crane, dai quali Hart era stato mandato in occasione della grave crisi coniugale, provenivano entrambi dal New England, erano stati dei veri e propri pionieri spintisi verso le riserve del West. Crane si spostò a Cleveland all’età di dieci anni. A circa diciassette anni, intollerante dell’ambente provinciale e desideroso di fare esperienza del mondo, trovò vari modi di trascorrere significativi periodi della vita a New York. Qui sperava di trovare una collocazione nell’ambiente letterario, salvo tornare dalla madre a Cleveland quando rimaneva senza mezzi per vivere. Nei primi anni Venti, Crane era già un talento riconosciuto, e intratteneva rapporti con i principali scrittori del tempo. Per un periodo visse con il critico Gorahm Munson e sua moglie. Nel 1925 fu ospite di Allen Tate e della scrittrice Caroline Gordon. Durante la permanenza a New York non ebbe mai però molta fortuna, e le sue entrate, scarse, dipesero sempre da elargizioni familiari, prestiti, e solo più tardi da qualche pubblico riconoscimento, come la borsa di studio Guggenheim o il prestito del banchiere Otto Khan.
I momenti forse più tristi della sua carriera poetica riguardarono le vicissitudini editoriali delle sue poesie: dai fraintendimenti, alle critiche, ai rifiuti, ai ritardi o ad altri problemi nella loro pubblicazione. Vengono ricordati, come particolarmente dolorosi per Crane, il rifiuto di Passage da parte di Marianne Moore e le modifiche a The Wine Menagerie da questa apportate e cui Crane, in estreme difficoltà finanziarie, dovette sottostare perché fosse pubblicata, permettendo così un guadagno (pare sia stata questa l’unica occasione in cui Crane sia sceso a un compromesso rispetto alla purezza della sua arte). Pure fu pesante il susseguirsi di incertezze sui tempi di pubblicazione di White Buildings, principalmente dovuti, pare, al tentennare di Eugene O’Neill, ammiratore di Crane, il quale gli aveva promesso un’introduzione, che poi non fu mai scritta. Quando Crane vide fallire sia il suo progetto poetico legato a un’antica civiltà messicana (progetto dedicato a Montezuma), sia il tentativo di stabilizzare un rapporto eterosessuale con Peggy Baird Cowley, ex moglie del suo amico, lo scrittore Malcolm Cowley, la sua disperazione toccò il fondo. Aveva perso nell’inverno precedente il padre, con cui si era recentemente riconciliato. Pare inoltre che la notte prima della sua scomparsa, trascorsa fra i fumi dell’alcool, fosse stato picchiato da un membro dell’equipaggio della nave Orizaba che aveva violentemente respinto le sue avances.
Ma la sua omosessualità in un mondo omofobico, purtroppo, non fu l’unico problema per Crane. La sua situazione, la sua sensibilità e il suo carattere erano tali da renderlo sempre teso, incline agli eccessi, ambivalente, provocatorio e problematico nel suo rapporto con il mondo, e la sua devastante normalità. L’alcool peggiorò enormemente tutti i problemi di Crane, e finì per essere forse il principale, quando sul finire degli anni Venti, nonostante si cominciasse a vedere un riconoscimento del suo valore come poeta, gli intervalli di sobrietà si fecero sempre meno duraturi e meno frequenti. Nel tentativo di completare The Bridge, nel febbraio del 1929, Crane, che aveva ricevuto 2000 dollari dal mecenate Otto Khan per consentirgli di portare a termine la stesura dell’opera, partì per Parigi, dove fu ospite di una coppia di amici americani, Harry e Caresse Crosby, titolari della casa editrice d’arte Black Sun Press, che gli avevano messo a disposizione una tenuta di campagna a Ermenonville dove potersi concentrare e scrivere in pace. Crane aveva schizzato la parte centrale del poema, Cape Hatteras, per diverse settimane. Poi, tornato a Parigi nel giugno, dopo un soggiorno a Marsiglia trascorso fra eccessi alcoolici e sessuali, come riferisce il suo amico Crosby, finì per farsi arrestare in un bar di Parigi dopo aver aggredito un cameriere e anche i poliziotti accorsi sul posto. Incarcerato alla Santé, venne liberato dopo sei giorni e dopo il pagamento di una sanzione di 800 franchi, e rientrò negli USA. Le sue condizioni psicofisiche diventarono sempre peggiori, tanto da farlo apparire spettrale al poeta H. P. Lovecraft. Di lì fu un’escalation di eccesi, fino alla morte, annunciata, per annegamento.
Il mare, che fu per lui simbolo di potenza e di resa, di abbandono, di amore e morte, sembrava destinato a naturale ricetto della sua esistenza, della sua arte. Ma il mare fu, per lui, anche simbolo di libertà dall’ipocrisia e dal conformismo, dall’indifferenza di un mondo disumanizzato. Crane sognava potesse ancora esserci sul mare ancora un riparo per lui, un porto franco in cui vivere, come libera avventura, la sua umanità, l’immaginazione e la passionalità che lo divorava. Forse, alla fine, ci riuscì, ma molto abbiamo perso lasciandolo andar via troppo presto.
Brano tratto dall’Introduzione a White Buildings
In evidenza un ritratto fotografico di Hart Crane.