Raccogliamo in questa piccola rubrica teatrale i cosiddetti “Scritti sulla sabbia”, drammaturgie sospese di autori viventi, inesistenti, forse eterni. Li sottoponiamo al vostro giudizio, alla vostra critica e al vostro piacere. Buona lettura.
«Scritti sulla sabbia. Scritti su una materia che non contiene forma, che ne abbraccia una diversa ad ogni ondata, forma che ha nella marea la sua fonte di mobilità e che fonda la sua cronologica struttura sul moto della risacca. Scritti sulla sabbia come parole impressionate da un’arte volatile, instabile, teatrale. […] È forse per questa sua congenita instabilità che il teatro ha bisogno di una tutela maggiore, architettonica? Di una casa, di una struttura totalmente dedicata, edificata e lasciata attraversare senza sosta, mai abitata, mai. Le parole che vi offriamo non hanno la solidità di un edificio teatrale, posseggono invece la volatilità dell’arte teatrale, da essa partono per rilanciarsi oltre il teatro. Decliniamo ogni pretesa di stabilità, scriviamo sulla sabbia, produciamo un segno sulla natura fragile di una materia versatile, cartina di tornasole delle maree che divellono le anime.»
[Mokar Witzlos, Manifesto di un teatro incompiuto]
In apertura di questo piccolo esperimento mentale, dunque teatrale, vi proponiamo la prima scena dell’atto unico mai andato in scena, DOPO IL DILUVIO di Mokar Witzlos, (traduzione di Ettore Ragazzoni), prossima uscita per la collana Crisalide di Edizioni Grenelle.
Mokar Witzlos
Dopo il diluvio (Après le Déluge).
Personaggi:
- Sándor (interpretato da una donna);
- Padre Oleg, il cercatore involontario;
- Il ragazzo, ovvero Belzebù (impersonato da un fantoccio, da un rospo, da una voce fuori campo);
- Vassily, il capostazione;
- Vselavsky, ufficiale d’artiglieria;
- La “macchina del deserto”
Risuona una musica, è «13.III.1927» di Gurdijeff/De Hartmann.
In un’angusta stanza, illuminata dal debole chiarore di una misera lampadina, un uomo, seduto ad un tavolo, vernicia dei piccoli pupazzi. Sembra intento nel suo lavoro ma, nello stesso tempo, distaccato da esso. Con gesti sicuri, automatici, dà il colore ad un occhio, traccia il segno di una bocca, accenna il ciuffo di una frangia. Sul volto di quest’uomo è possibile intravvedere una smorfia di disgusto, e non è difficile credere che questa sia rivolta all’ordine imperscrutabile dei suoi pensieri.
Di colpo l’uomo intona un canto, come se rispondesse a qualcuno; la melodia è improvvisata, le modulazioni e le cadenze cercano la rima, ma la rima non viene.
[Senza il senso del ritorno di una rima, la musica diventa il più instabile tra i terreni per il pensiero. La memoria dimentica il suo vecchio ordine, fatto di tacche per registrare il passaggio del tempo, di segni che ammiccano ad un ritmo astratto, privo di musica. Senza questo cortocircuito, dato dalla rima, non è più possibile stabilire un dialogo a due voci come quelli che si svolgevano in Persia, in Turchia e nelle regioni caucasiche tra i migliori ashokh, poeti e narratori che incantarono in un lontano tempo che forse fu].
L’uomo [Sándor] recita l’inizio della XI° tavola del poema di Gilgamesh, liberamente rielaborato:
“Una cosa nascosta ti voglio rivelare \ ogni fiume appartiene al suo letto,\ alla corrente che glielo fa lasciare.\ Sotto di esso giace la tua città,\ era già vecchia quando venne il diluvio,\ per salvarla si pregò ogni tetto e col suo legno si forgiò una nave.\ Lascia ciò che tieni, cerca la vita,\ nulla è senza freni, salva la vita.”
(Tutta una specie di perdenti ha casa su una croce natante)
Appena l’uomo ha finito di intonare una strofa, dal buio della camera gli risponde una voce profonda:
[Padre Oleg] Dal «Quotidiano della sera dopo»: “Incredibile ritrovamento fra le rovine di Babilonia. Scoperte alcune tavolette recanti iscrizioni cuneiformi risalenti, secondo gli archeologi, a quattromila anni fa”.
“Recanti”, ma guarda che roba, tsz tsz. Dico io, un po’ di decoro, di rispetto per questo straccio di lingua che ci è rimasta. È mai possibile, eh, Sándor, parlare così? Come diceva Yedrov? “L’informazione è come una sontuosa cornice per un quadro bianco, l’unica scusa che si riesce a trovare per il grande assente: Il pensiero”. Che lenza quel tipo, eh eh; ti ricordi quando vi siete sfidati, da ragazzini, al campo di tiro, per vedere chi dei due avrebbe sposato Nadja, la figlia del capostazione.
Immobili, come due salami, tra le trincee scavate dalle granate, mentre sopra infuriavano i fuochi d’artificio; dovevate essere matti, tutti e due. Il bello è che poi, quando siete usciti vivi da quell’inferno, di quella Nadja non avete più parlato. Neanche una parola, puff, come se non fosse mai esistita. Anche lei però, a tenervi sul filo insieme. Quando seppe della vostra bravata, il povero Vilja, il vecchio capostazione, la mandò ad Alexandropol’ a studiare dalle monache, e a far danno pure là. Pare che rimase incinta di un ufficiale russo, un certo Smidrov. Il nuovo capostazione, sai, quel tipo pallido, simpatico, Vassily. È suo figlio, il figlio della tua Nadjenka.
Padre Oleg ha detto queste cose con una malizia compiaciuta, gratuita e inappropriata, specie per il suo ruolo; egli se ne accorge e scuote il capo vergognandosene.
[Sándor] Andiamo Oleg fammi vedere questa foto, prima che diventi cieco, sotto questa lampadina, se non ti dispiace.
La voce profonda prende corpo dall’ombra: ha le fattezze di un vecchio prete ortodosso, tiene in mano una rivista. La porge annoiato all’uomo seduto al tavolo.
[Sándor] Com’è strano. Certe parole, credevo di averle ascoltate solo io, la notte, da mio padre, mentre intagliava portapenne e ciondoli di legno. Credevo che solo nella mia mente avessero trovato una forma provvisoria, i pensieri che quei racconti portavano con sé. Poi arriva una foto e ti dice che tutto viene da molto più lontano, che la fonte di quelle parole non è la bocca di tuo padre; che quella fonte oggi è così lontana da non poter più dissetare gli uomini; al suo posto solo sabbia, rovine e polvere, per il divertimento di avventurieri e scienziati senza mistero.
[Padre Oleg] La fine del giorno ti fa sempre uno strano effetto eh, Effendi (appellativo turco che sta per “signore”)? Senti, io mi vado a fare un goccetto, vuoi venire [sornione]?
[Sándor] Chi si sposa?
[Padre Oleg] Vassily, il tuo figlioccio [non riesce a dissimulare una nuova malizia], il nuovo capostazione. Festeggiano nella sala d’aspetto l’arrivo della sposa, col treno delle due.
[Sándor] No, vai pure, ho da mettere a letto quell’ apparecchio cosmico per la trasformazione del cibo».
[Padre Oleg] Il ragazzo, eh? Ma dove si è cacciato?
[Sándor] Mah, stava rovistando lì nell’angolo, quando sei entrato (indica l’angolo alla sua sinistra. L’uomo è seduto di fronte alla platea, il vecchio prete è alla sua destra).Deve essersi addormentato.
(rivolgendosi al ragazzo, con voce imperiosa) “Batjuska (diminutivo russo, traducibile con “paparino”), su alzati da lì e va a letto, domani hai scuola”.
[Padre Oleg] Dovresti mettere un po’ d’ordine in questo laboratorio, Sándor, non fa bene al ragazzo respirare tutta questa polvere. Guarda qui il ciarpame che hai accumulato, quando ti deciderai a gettalo via.
[Sándor] Gettarlo via? Caro amico, come saprai non è possibile dare via ciò che è stato già abbandonato una volta, senza prima dargli una nuova vita, conosci il Talmud (uno dei testi sacri del Canone ebraico), vero? Anche se ti sei dato alla croce [con evidente sarcasmo]. Questo balocco, per esempio, è stato un vecchio bollitore, poi l’ho raccolto, a rischio di far finire questi poveri calcagni tra le fauci di certi cagnacci che certe [alludendo chissà a chi] persone mettono – chissà perché – a guardia dei loro rifiuti. Ho poi aggiustato, ripulito, ridipinto il tutto, infine – cosa più importante – ho convinto queste cose ad essere altro. Ci vorrà del tempo prima che qualcuno – un mio cliente spero – si stuferà anche di questo nuovo aspetto delle sue vecchie cose, solo allora ne ritornerò in possesso per trarne un giusto profitto.
Qui, come vedi, ho ancora molto da fare prima che tutti questi oggetti prendano un’altra forma. [Informando così Oleg che è ora per lui di andare].
D’altronde, senza questo lavoro, come credi che vivremmo io e il ragazzo? Cosa credi, che mi diverta alla mia età [ridacchiando tra sé e sé] ad andare in giro la notte per rubare questa roba dal pattume; credi che mi piaccia perdere la vista per costruire questi pupazzetti; caricarmi il mio sacco sulle spalle e avviarmi, quando la notte è ancora alta, al mercato di Kars.
[Rincara a dovere la dose, in modo che sia chiara, ad Oleg, l’inopportunità della sua osservazione].
[Padre Oleg] Va bene, va bene, fa come ti pare, ti saluto.
(Sándor si è intanto alzato dal tavolo, ha raccattato un fagotto dall’angolo e con fatica si appresta ad accomodarlo su un lercio materasso posato per terra).
[Sándor] Ecco qua (con una nota di trionfo, depone il ragazzo-fantoccio sul materasso, poi tira via una coperta dal tavolo, dove faceva da tovaglia ai poveri resti del pasto – solo poche stoviglie vuote – e con essa copre quel misero corpo). “Notte Batjuska”.
(L’uomo riguadagna il centro della scena, estrae da un vaso di vetro una grossa rana, la accomoda, con molta cura, sotto la coperta dove dorme il ragazzo).
Il vecchio prete, che si era fermato per assistere alla scena, scuote la testa ed esce.
In evidenza una scena tratta dal film “Sayat-Nova”, del regista armeno Sergei Parajanov (1969)