La sotterranea regola che guida ogni vera rivoluzione consiste nell’inversione dei rapporti di predicazione tra soggetto e oggetto. “Rivolgere”, infatti, è attività che prelude al cambiamento di orientamento, non certo all’uscita dall’universo di riferimento. Fare la rivoluzione è la definitiva accettazione del mondo in cui si vive; la voglia di cambiare lo stato di cose non nasconde nel rivoluzionario un côté conservatore o, quanto meno, realista. Se dall’orizzonte stirato tra me e la mia declinazione non si può uscire, esistono tuttavia, all’interno di questo quadro, prospettive plurime, incontrando le quali il mondo è come se si discostasse dai suo cardini per assumere un altro aspetto, pur rimanendo sempre se stesso.
Questo è avvenuto durante la cosiddetta rivoluzione scientifica: per innescarla è bastato scommettere su un’intuizione filosofica, così semplice da suscitare l’ilarità del senso comune. Come la lettera rubata di E. A. Poe la verità rimane nascosta proprio restando a portata di mano. Come dire: insinuare il sospetto che il rapporto di priorità tra il sole e la terra fosse il frutto di un’indebita assegnazione di valori umani (troppo umani) nella sfera cosmica costrinse a rivedere non solo teorie astronomiche ma anche sistemi i valori e regole di comportamento invalse da secoli. In questo orizzonte valoriale da rivedere rientra, a ben vedere, anche il teatro. Scienza e teatro, vita e finzione: la doppia attribuzione del termine rivoluzione, intende mettere in rilievo la segreta corrispondenza, che arriva ad assumere i tratti dell’ambivalenza, tra questi due termini.
Uno dei segreti del teatro – forse il suo più magnetico – consiste nel graduale, potentissimo, cambio di prospettiva che produce nello sguardo dello spettatore; un fenomeno simile a quello occorso con la nascita della scienza moderna. L’abbandono della scena tradizionale e della visione sceno-centrica, che faceva partire ogni direzione di senso dallo spazio dell’azione, quale luogo chiaramente separato dalla platea, non si è realizzata né semplicemente né senza traumi, ancora una volta proprio come per la scienza moderna. La stretta corrispondenza fra teatro e scienza non ha in sé nulla di ardito: basta scorrere i libri che disegnano la storia di entrambe le discipline per accorgersene. Prima che si producesse lo strappo fondamentale col passato, e prima che le autorità (o le accademie) condannassero come eretici i rinnovatori dello sguardo sul mondo (scienziati e uomini di teatro che fossero), diverse – timide o misconosciute – furono le ipotesi anticipatrici delle rivoluzioni a teatro e in ambito scientifico.
Già al Globe Theatre l’azione si offriva allo sguardo impudico dello spettatore da ogni lato – specie da quello più prossimo al sipario. Che dire poi dei Mystery plays, che avevano luogo nelle piazze e sul sagrato delle cattedrali medievali realizzando dei centri spettacolari multipolari ben prima del famoso Orlando di Ronconi?
Insomma il processo di liberazione dello sguardo a teatro non ha seguito un percorso lineare dalla tragedia greca al Living theatre. Ci sono state improvvise accelerazioni e rapide recrudescenze, quasi che il teatro fosse la naturale cartina di tornasole della capacità dell’uomo di ampliare e sacrificare orizzonti e conoscenze. In scena, il processo di liberazione dalla prospettiva centrata sull’attore dura tutt’ora. Negli anni ’60 si provò a elidere la distanza tra spettatore e attori, cercando di diffondere il teatro nelle strade, per farlo coincidere con la vita stessa. Il tentativo di far diventare l’azione totale dissolvendo la rappresentazione nell’evento improvvisato, incontrò numerose difficoltà, insormontabili retaggi sociali. Primo fra tutti la concezione del teatro come tempo intrattenuto tra la vita vera e la sua temporanea sospensione, come spettacolo fatto per divertire gli uomini, per consegnarli all’oblio delle sofferenze, alla catarsi del desiderio, alla rivelazione di una qualche verità.
Se pensiamo a quanto accaduto alla scienza già Eraclide Pontico e Aristarco di Samo, in quella strana epoca che fu l’ellenismo (ricco di scoperte, bizzarrie e ascetismi ma privo forse di senso pratico), furono gli indiscussi anticipatori del sistema Copernicano, molti secoli prima di Copernico. Le ragioni per cui si dovette aspettare diversi secoli prima che quelle intuizioni divenissero spettabili realtà è qui troppo lungo da rilevare, quel che ci interessa osservare è che una volta prodottasi la rivoluzione scientifica non si è più potuto tornare indietro. Si è trattato di una rivoluzione dello sguardo, che ha avuto a che fare con l’invenzione della prospettiva. Si scoprì che facendo saltare le stelle fisse si liberava un’enorme quantità di possibilia. Ma la rivoluzione scientifica è anche una rivoluzione teatrale, che si fonda sull’inversione dei ruoli. C’è un’inversione della polarità azione-passione alla base della proiezione scientifica. La rivoluzione scientifica insegna al teatro la strada per praticare la sua inversione di valori. E tale rivoluzione si svolge utilizzando il linguaggio proprio del teatro: è infatti a teatro che il nuovo indirizzo scientifico trova la sua più compiuta celebrazione.
Un lunghissimo accidentato filo rosso lega uno dei protagonisti della modernità, Giordano Bruno, al maestro della messa in scena della contestazione, Bertold Brecht. Bruno individuò nella scena il luogo ideale di esaltazione delle nuove conquiste scientifiche. La cena de le ceneri è un sognante, turbinoso dialogo su sacre scritture e filosofia naturale, moto dei corpi e topologia morale, che si snoda e si perde tra le brume del Tamigi. Ma a Bruno l’ostensione scenica della sua ipotesi filosofica costò la vita; se avesse potuto suffragare le sue ipotesi con l’evidenza della visione, se avesse avuto un cannocchiale, forse avrebbe avuta salva la vita. E cosa significa chiedere a Bruno di essere come Galilei? Ci risponde la Vita di Galileo di Bertold Brecht, in cui lo scienziato fiorentino diventa il capro espiatorio della demistificazione del drammaturgo tedesco. Quello che la storiografia oleografica ci ha tramandato come un martire della libertà, viene trattato da Brecht come un fedifrago, un uomo che tiene alla sua pelle più di quanto ci si aspetti da un eroe. Tuttavia, il Galileo brechtiano non è un personaggio negativo, forse è incapace di slanci romantici ma sa raggiungere uno scopo: sacrifica il suo nome per far progredire la verità della scienza, insegnando come la santificazione degli uomini faccia solo il gioco del potere. La pièce brechtiana è la metafora di una posizione irredenta del sapere e della sua natura sempre engagé nei confronti della tirannia.
La lezione ultima di questi due percorsi di scienza e teatro è la non conclusività del cammino rivoluzionario, il cui asse invisibile, la verità, viene nominato appena per lasciar sperimentare una prospettiva nuova, una scena che vale solo in quanto banco di prova di un esperimento.
Andreas Artie
In evidenza: un’immagine di scena tratta da una riedizione della “Vita di Galileo” di Bertold Brecht, 1971.