Il massacro dada che piace tanto a blob
Quello che rimane ai margini di un film, il materiale scartato, i fotogrammi rovinati, tutta l’enorme congerie visiva affastellatasi attorno alla miracolosa narrazione cinematografica trova ricetto in una pellicola informe, instabile, chiamata da Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi “La verifica incerta” (1965).
Dobbiamo forse frenare la coazione ermeneutica che vorrebbe vedere in tale film una forma di denuncia, un’inguardabile tranello teso al pubblico delle sale per smascherare la mercificazione del tempo libero. La faccenda è più sottile: non siamo di fronte all’ennesimo grossolano e sprezzante j’accuse diretto all’industria del divertimento; questa “cosa” data in pasto agli occhi è un atto d’amore e, allo stesso tempo, una cannibalizzazione dell’idea di cinema.
Il tentativo strenuo di salvare queste schegge imperfette, infatti, pur guidando il gesto pietoso che le compone in una sequenza sporca, ci mostra pericolosamente il sacello della visione. La ripercussione del fotogramma su se stesso scava una ferita orrenda, dietro cui emerge il volto balbettante di una narrazione orfana, che ammutolisce e comunica, come tutte le immagini sacre, qualcosa di terribile.
Scontri a fuoco, esplosioni, risvegli, baci partenze; una cascata di figure ritornanti ci sommerge rendendo impossibile l’immedesimazione, un periplo accelerato che attraversa generi – dal western al thriller al fantastico – e stilemi dell’universo cinematografico vietando tuttavia la dissoluzione della persona nel personaggio. Un simile groviglio linguistico riesce però a proiettare i suoi strali anche nella frammentarietà della sua esposizione; qualcosa continua a tenere lo spettatore incollato allo schermo, forse non più l’illusione cinematografica, ma la scoperta del principio stesso della visione.
In un tale turbinìo di icone replicate, i topoi sono tutti rispettati: il tempo narrativo – la scansione tripartita in inizio-sviluppo-fine – è ben individuato, seppure nella concatenazione di gesti ripetuti. Non mancano neanche le simbolizzazioni di riti di passaggio: la discesa dall’alto in basso, l’attraversamento reiterato di porte-finestre-cassetti. Compaiono infine gli elementi naturali, alchemici: l’acqua che ricade sempre identica; l’aria tersa delle trasvolate oceaniche sulle battaglie navali; la terra, nuda, calcata, rivestita di polvere; infine il fuoco delle multiformi esplosioni. Un enorme materiale messo insieme seguendo un’idea antitetica di montaggio: quella che non ricerca l’unitarietà della fabula, la coerenza morale, il riferimento condiviso ad un senso esplicitabile. Il suono è asincrono, le immagini rovinate, giustapposte in maniera imprecisa, squilibrata, non certo offerte per rilassare lo spettatore, per affidarsi alla sua capacità di immedesimazione
Ecco perché il film esprime un’affezione quasi patologica; basti pensare alla collezione, al recupero, alla raccolta differenziata che lo sostanzia, per accorgersi della natura autodistruttiva dell’esperimento. Il cinema ne “La verifica incerta” si corrode da sé, ogni fotogramma incombe sull’altro, ogni immagine fende l’altra, la ferisce a morte. La pellicola si disintegra da dentro, praticando un’endoscopia implacabile su un corpo ancora palpitante. Eros e thanatos spiegano solo parzialmente i moventi nascosti e il sottile atroce piacere connesso alla questa visione impossibile. Non possiamo smettere di guardare “La verifica incerta” perché ci svela una finzione, ci consegna a un’estasi marginale, elevandoci da passivi consumatori a osservatori delle origini sostanziali di un’ossessione, pronti a perderci nella dimensione subatomica del sogno.
Jon Zapoj
In evidenza: un’immagine di Alberto Grifi.