Non è impossibile leggere un classico della letteratura inglese del settecento, i Gulliver’s Travels di Swift, come un curioso e inatteso esercizio di meditazione. Il romanzo – uscito nella seconda metà del XVIII sec. – è, per certi versi, un alternativo esercizio di sospensione della mente attraverso la ricollocazione di oggetti in un nuovo spazio e nell’edificazione di strutture di senso non canoniche. Swift attua la meditazione attraverso la contemplazione di paesaggio: l’orizzonte mutato, nella prospettiva gigantesca assunta da Gulliver nella terra di Lilliput, diventa fonte di attonita scoperta; lo stesso può dirsi per la contemplazione del corpo di una donna, trattato come un ignoto enorme territorio da Gulliver ridotto alla statura di un nano durante il viaggio a Brobdingnag.
L’escamotage che permette al pensiero di assestarsi, e di gettare uno sguardo alla sospesa realtà celata dietro i nostri discorsi, passa per la finzione di un nuovo ordine del reale, per una nuova consapevole descrizione di paesaggio la quale, tacitando il normale corso dei pensieri, diviene transitorio campo di ricreazione del mondo per rivelare, poi, che il mondo vero non consiste in un ordine riferibile, non riposa nell’idea di sistema. L’istanza etica proveniente dallo sforzo di porsi in una prospettiva altra – Gulliver che guarda il mondo da altezze chilometriche prima e micrometriche poi – diviene fondamentale viatico per il vero fine della meditazione, la sospensione del giudizio. Tale istanza etica relativizza la preminenza umana nel cosmo, rileva l’importanza dell’inconcepibilmente piccolo, la sua grazia e valore assoluti.
Tenendo le fila di questa lettura parallela del classico swiftiano, intendendo la contemplazione di paesaggio come la forma che innerva sottotraccia la struttura delle peripezie gulliveriane, dobbiamo concentrarci sul valore dell’attraversamento marino come sintomo di perdita di un orizzonte di senso, come tacitamento del brusio del mondo, per conquistare un terreno sconosciuto, da ricondurre a sé, nei limiti del pensiero che ha il suo vertice nello sguardo, in virtù della ricapitalizzazione di senso dell’idea di paesaggio. Il mare, le grandi traversate oceaniche, è sinonimo di conoscenza, di perdita e invenzione insieme, probabilmente per l’umanità intera, ma soprattutto per il popolo britannico. La grande potenza inglese ha costruito le sue fortune avventurandosi in rotte sconosciute verso la scoperta di popoli e mercati imprevisti. Ed è proprio smarrendo la rotta, creando un diversivo nel tragitto tracciato, che si crea lo spazio per l’avventura, l’occasione di rinvenimento dell’inatteso, di popoli ignoti, di terre incredibili che occorre ri-territorializzare.
Non è inesatto affermare che Gulliver cambia e non cambia statura; che è, allo stesso tempo, uguale a se stesso e totalmente altro da sé. Quello che segnala il cambiamento di stato del protagonista swiftiano non è il paesaggio, ma il rapporto con gli altri essere umani, con i minuscoli lillipuziani o con i giganti brobdingnagesi. Senza il confronto con questi esseri, ugualmente umani (per l’organizzazione del corpo) e inumani (per l’ordine di grandezza totalmente fuori canone), l’estrema distanza di Gulliver dalla sua normale figura e da questi mondi sconosciuti non si mostrerebbe.
L’idea di paesaggio è forse il risultato della preminenza data allo sguardo quale centro ordinatore di ogni idea, alla vista come organo privilegiato della logica. Gli occhi, posti nella parte superiore del viso, hanno guidato l’uomo nel suo processo di appropriazione del mondo. Il guadagno della statura eretta coincide quindi col definirsi dell’idea di paesaggio. Il terreno che si squaderna al di qua dell’orizzonte (limite che denuncia il punto di inabilità della tecnologia dello sguardo) si trasforma in territorio, in luogo in cui sono stati rilevati dei segni, trascelti dei confini, stabilite relazioni. Il paesaggio non è un’idea senza scopo, lo dimostra il fatto che esiste un procedimento per la sua composizione: un paesaggio si crea a partire dalla cornice che lo inquadra, stretto tra l’incolmabile distanza dell’orizzonte, gli estremi laterali dell’arco visivo e il corpo stesso dell’osservatore su cui sono innestati gli occhi. Entro questo spazio si articola la minuziosa descrizione di un luogo non raggiunto dalla mano dell’uomo ma posseduto dal suo sguardo, dalle categorie dell’intelletto, dalla facoltà creatrice e ordinatrice del linguaggio.
Quello speciale tipo di meditazione che consiste nella contemplazione di paesaggio realizza dunque un nuovo ordine delle cose nominando diversamente la realtà, riferendo a sé una rinnovata istanza di senso. E quella del paesaggio è un’azione continua; al di là del quadro – dato dai limiti tecnici dell’organo della visione – entro cui si inscrive, l’attitudine propria del soggetto descrivente l’unità paesaggistica comporta la correlazione inesausta di elementi contigui i limiti della visione. Così si manifesta una volontà assoluta di assimilazione del mondo; il tentativo di ridurre le cose ad un “per me”, ad entità nominate da uno sforzo prometeico. Nell’idea di paesaggio è insita, perciò, un’implicita pulsione di potere. In quella di contemplazione, invece, c’è quella del disinteresse, della neutralità, della distanza inattiva. La locuzione contemplazione di paesaggio è pertanto antitetica.
Nelle diverse esperienze di metamorfosi dello sguardo gulliveriano quello che rimane costante è la distanza del soggetto dal mondo; il paesaggio è il sintomo di un’impossibilità della prensione, di una non immediata prossimità delle cose. La consapevolezza della ineliminabilità della distanza, dell’inefficacia della pulsione di potere soggiacente l’idea di paesaggio non comporta però la sua caduta; la considerazione che esistono molteplici punti di vista, dunque plurimi, contemporanei, paesaggi, consente alla tensione di paesaggio di sciogliersi in contemplazione, in attività adeguata al fine meditativo. Infatti, solo quando si relativizza la prospettiva che determina un paesaggio, solo quando dietro un determinato paesaggio se ne intravvedono le infinite ulteriori possibilità di riorganizzazione (riducendo il paesaggio stesso a palinsesto di paesaggi contemporanei, intravisti o immaginati) il mondo, nella sua pluralità, diventa brusio, distanza incolmabile, insensibile ad ogni personale pulsione di possesso. Allora la meditazione, quale forma sincretica antichissima di epoché, realizza il suo fine e, squarciando il velo, crea un’insondabile chiarezza, dove la logica risulta inservibile e il linguaggio tace, finalmente.
P.M.
In evidenza: “Una parata lillipuziana sfila tra le gambe di Gulliver”, illustrazione di Louise Rhead, 1913.