Locus Solus, il grande parco con villa che circonda la proprietà di Martial Canterel – protagonista del romanzo di Raymond Roussel – a Montmorency, è uno spazio di esposizione artistica sui generis. Vi trovano ricetto opere di difficile classificazione, che sorgono alla vista quali residui o precipitati di vicende incredibili, scritte da quel grande “ipnotizzatore moderno” – come lo descriveva André Breton – che fu Roussel. Vero antesignano della letteratura potenziale – non a caso idolatrato da Queneau, Perec e Calvino, fondatori dell’OuLiPo – Roussel compose Locus Solus seguendo il suo famoso procédé, un severo metodo scientifico guidato da regole stringenti. Proviamo a riassumerlo: partendo da due frasi, il cui medium continuum è costituito da due parole simili ma con doppio significato, egli scrive un racconto che cominci con la prima frase e finisca con la seconda. La creazione imprevista che si dipana fra questi due termini è così dovuta al richiamo fonetico o di significato fra le parole. Questa accumulazione, per lo più inconscia, di materiale linguistico, dettata dalla tecnica combinatoria descritta, poneva dei problemi logici di ordinamento di fatti. In più, questo procedimento, non metteva al riparo dal rischio di mettere al mondo cattive opere. Tuttavia, dal punto di vista estetico, risulta innegabile come il vincolo di una regola (di una regola del genere poi) sia necessario ad ampliare le possibilità visionarie di ogni vera creazione.
Nella sua semplicità il procédé di Roussel risulta estremamente potente: narrativamente prolifico e semanticamente interessante. L’autore non fa che sfruttare potenzialità e proprietà da sempre note ai linguisti, sicché mettere insieme parole identiche che dicono cose diverse diventa un naturale acceleratore di storie. In un gioco di différance derridiane si attiva un percorso a scartamenti successivi che riconduce, secondo lo schema del ring poetico, la narrazione a rivolgersi, dopo ampi e inaspettati giri, al punto di partenza. La regola, in Roussel, diviene il clinamen, il sintomo della deriva che porta le storie a costituirsi a partire da quelli che senza dubbio sono i suoi incubi preferiti: supplizi fantasiosi, la sopravvivenza alla morte, la controllabilità del tempo, il gusto post-positivista per la scienza patafisica. L’ironia profonda che lo portava a forzare le faglie linguistiche del mondo, gettando con rebus e crittogrammi ponti di comunicazione con l’altrimenti e con l’impossibile avrà in Locus Solus un luogo di esercizio ellettivo..
Michel Leiris a proposito del procédé rousseliano ha parlato di «nominalismo magico», di un metodo «tale che la parola suscita la cosa e la dislocazione (“un po’ come se si trattasse di estrarne disegni da rebus”) di una serie di frasi qualsiasi determina la ricreazione dell’universo, la costruzione di un mondo speciale che prende il posto del mondo comune»[1].
Quale migliore frase per riassumere la tensione poetica ed esistenziale di un uomo che, cercando inutilmente la fama, trovò accidentalmente un altro mondo?
[1] Michel Leiris, «Comment j’ai écrit certains de mes livres», in: Brisées, Gallimard, Paris, 1992, pp. 68-71.
La Redazione
In evidenza: il cancello di accesso alla proprietà Locus Solus, illustrazione al volume di Raymond Roussel.