La netta divisione tra logos e mythos ha in sé qualcosa di artificiale. La realtà, l’ipotetica e trasformistica realtà, non risponde che a leggi contrastanti, continuamente esposte alla prova della ragione e della follia. È forse per questo che, parlando di realismo, la più coerente idea a riguardo è una strana commistione di questi due diversi e compromettenti stili di pensiero – logos e mythos appunto -, una linea di frontiera metaforica nella quale la ragione, per alludere a qualcosa di ignoto, ricorre alla distanza dell’immagine mitica, utilizza cioè uno strumento potente, per quanto fragile, per tendere un agguato alle proprie certezze. Sicché, abitando il mito più diffusamente le nostre vite che non la logica, non stupisce che la riedizione quasi quotidiana di figure e situazioni quasi mitiche, ci spieghi la nostra vita più direttamente o con più fascino di un sillogismo. Nella stessa maniera, poetica ma in qualche modo irriferibile, pare che il mito ci parli attraverso un episodio della letteratura medica di grande fascino.
Parliamo di un capitolo, incredibile e doloroso insieme, del fortunato libro di Oliver Sacks – recentemente scomparso – The Man Who Mistook His Wife For a Hat. In questo capitolo, intitolato “La posseduta”, il neurologo statunitense ci racconta di come un incontro fortuito, per le trafficate vie di New York, gli insegnò molto di più sulla natura della sindrome di Tourette – caratterizzata dalla presenza di tic motori e fonatori incostanti, fugaci e cronici, lievi e invalidanti – di quanto avrebbe mai potuto comprendere studiando solo casi clinici nel suo laboratorio.
La donna, di cui parla Sacks, si aggirava senza requie avanti e indietro per una strada della Grande Mela, imitando senza sosta i passanti, selezionandone gli atteggiamenti, e distillandone l’essenza prossemica in pochi secondi. Non contenta di questa magistrale e terribile prova mimetica, la donna si cimentava nella caricatura delle reazioni, imbarazzate e inorridite, dei soggetti delle sue performance.
Se il dottor Sacks rimase folgorato dall’esplicito fenomeno della tragedia tourettica rappresentata dalla posseduta, non si può evitare di rivolgere l’attenzione all’aspetto mimetico, teatrale della faccenda.
La realtà, l’abusatissima e forse inesistente realtà, da sempre alimenta ogni possibile immaginazione divenendo il ricettacolo non circoscrivibile di plurimi eventi e interpretazioni. Nulla di meglio, dunque, per un provetto attore, che cercare materia di trasformazione scenica per la strada, tra la gente. Da tempo l’Actors Studio, per non allontanarci dal setting newyorkese della narrazione, predica ai suoi allievi di assimilare vita, il gergo e luoghi dei personaggi che interpretano uscendo fuori dai teatri di prosa della 44^ strada per ispezionare il ventre della città, per perdere se stessi. Nulla di nuovo, dunque. Ma la storia della posseduta ci parla di altro: è, purtroppo, una storia di eccessi, verbali gestuali, e di perdita. Non si tratta di ricerca artistica, di deformazione corporea in vista di un evento scenico. La sua attività, la sua dolorosa e ineludibile attitudine, è resa cogente da un’affezione morbosa, tragicamente vocata alla sospensione del sé a favore della distillazione del valore altrui come personae, come maschere. La sua folle rincorsa verso l’altro, in un rapporto ultra sintetico che annulla la comunicazione, il suo vertiginoso, trasformistico gesto metamorfico di sé nell’altro e dell’altro nella sua caricatura è destinato a produrre un annullamento totale. Quello che la posseduta indica è un confine, il limite estremo della vita, raccolta nell’involucro – da sempre fratturato – dell’identità, l’estrema propaggine dell’arte mimetica, il luogo della sua implosione.
La posseduta sembra testimoniare, come già ipotizzava il filosofo scozzese David Hume, una terribile verità: noi non siamo altro che un fascio di sensazioni che si succedono con inconcepibile rapidità, un flusso e un movimento perpetui che fa dell’identità personale una finzione, il laccio teso a raccogliere moventi emotivi per costituzione destinati a succedersi e disperdersi. Quello che salvaguarda un “normale” essere umano, il fatto di possedere delle sensazioni, di poterle riferire a qualcosa che diviene il sé – quale collante estremo che scioglie il flusso emotivo dalla sua continua disseminazione – manca del tutto in questo essere umano che si affaccenda tra le vie di New York. La posseduta non possiede sé, è abitata da ogni maschera che incontra, senza possibilità di scelta, si rende luogo pubblico di ostensione dell’altro, spazio vacante di un’epifania incontrollata, strumento insensato di scrittura di un caos sensitivo.
La posseduta si fa dunque mero significante, gesto che copia, che scrive l’altro da sé. Nella rincorsa, continuamente ricaricata di riferimento all’altro, comincia a confondersi, a tracciare confusamente gli uni sugli altri tutti i segni, fino a renderli illeggibili, fino a nascondere il supporto su cui la rappresentazione si fonda – il mondo –, fino a perdere il senso della mimesi, a non concepire più nessun sé all’orizzonte. Come un confuso scarabocchio rende illeggibili i segni e confonde la carta col fondo nero di una massima concentrazione d’inchiostro, così la posseduta comincia il suo tragitto di scomparsa, sente arrivare il richiamo del mito. E il mito, richiamato all’inizio, non è quello di Sisifo, costretto a ripetere ancora e ancora il proprio supplizio; la donna osservata da Sacks è una specie di Ulisse redivivo, un essere umano completamente annullato dall’obbligo di essere, riferire in un attimo, decine di personae raccolte per la strada. E come Ulisse mutava aspetto per dimenticare casa, e farsi eroe eponimo dell’erranza, così la posseduta continua a indossare maschere stravolte, urlando al terribile mostruoso mondo, “Io non sono io, io sono nessuno, non puoi nominarmi, vedermi, controllarmi”.
Ode Eyse
Riproduzione di una tempera di Ildefons Houwalt dal titolo: “Dramatis personae i maski”, 12×10 cm, 1972