Secondo molti, l’arte raggiunge uno dei suoi obiettivi quando riproduce un certo senso del sacro. Il processo alchemico che sovrintende questa epifania è difficile da condensarsi in una legge universalmente valida. Un esempio riuscito di questo approdo al sacro lo mostra l’artista svizzero Zimoun. Nelle sue opere, la costruzione del sacro avviene attraverso la reiterazione di un movimento semplice e la moltiplicazione degli attori e delle condizioni di realizzazione del movimento stesso. È così che, ad esempio, il movimento circolare, comunicato da un motorino preparato a dei bastoni di legno o ad una palla fermata da un filo, diviene la parola magica su cui edificare questa riproduzione del sacro. Ma affinché la parola divenga mantra bisogna che venga ripetuta, all’infinito. Così il movimento, il rotare ottuso del pignone che riesce a diventare, all’estremità della protesi occasionalmente inventata, strumento per il grafema incontrollato del ritmo, deve essere moltiplicato in decine, centinaia di esemplari. Allora, allo spettatore, fermo al cospetto di centinaia di palle urtanti contro le pareti sonore di un cartone che riverberano nell’atmosfera il loro brulichio sordo e ossessivo, viene alle labbra la parola “sacro”. La deferenza dello spettatore, che questa popolazione di oggetti animati a forza da un solo impulso comunica, sconfina facilmente nel terrore, nel sospetto dell’esistenza di un mondo vivente da cui l’uomo è estromesso. La crudeltà di questa esposizione ha a che fare con la sottomissione dell’umano ad un’idea antica, quella del sublime. Se un evento minimo, una parola sussurrata, un movimento ispirato dalla ciclica rivoluzione di un ingranaggio, presi isolatamente sono gravati dal peso dell’irrilevanza, esponenzialmente moltiplicati raggiungono il sensazionale e riaffondano l’uomo, o meglio il suo senso dell’oltrepassamento, in una condizione di impotenza. Contiamo così poco, noi umani, non tanto quando falliamo, ma quando l’immensamente grande si mostra e ci rileva la sua matrice minima, infinitesima, quasi nulla.
E niente è, nell’economia del cosmo, il moto ossessivo di una palla che si schianta impazzita tra le pareti sonore di un cartone da imballaggio. Nullo, se non banale, il sistema di scarico energetico che produce un movimento circolare attraverso corone dentate; nullo, intraducibile e forse insignificante, il ritmo che riproduce l’intervallo della corsa del corpo contro il suo limite. Eppure questo linguaggio singolare, ripetuto e rilanciato da centinaia di contemporanei parlanti, in maniera ora accordata ora fuori sincrono, diviene in qualche modo significante, ci impone di trovare un senso, un senso impossibile, dal quale siamo esclusi, perché riflette una visione non umana, non singolare, di moltitudini scisse, invarianti.
Forse il sacro altro non è che un senso del ritmo, un ipnotico rimbalzare tra una domanda offerta mille volte e la sua impossibile risposta, una questua così reiterata da diventare insignificante, inascoltabile ronzio intervallato dal suo ritornare a porsi. Forse stare nel sacro – in un luogo separato, adeguato al suo porsi – significa entrare in un dialogo ritmato che dal piano singolo, minimo, aumenta istantaneamente ad una dimensione enorme, che ci sorpassa, frammentando la volontà di sconfinamento nella coscienza del limite.
Salvo Cernari
Nell’immagine: Zimoun, 318 prepared dc-motors, cork balls, cardboard boxes 100x100x100 cm, 2013