Non si scambia il sogno per un anello

I libri del professor Carlos Castaneda hanno da sempre scosso e indignato il mondo accademico. Considerati con scetticismo da antropologi ed etnografi, visti con disappunto da studiosi di misticismo e sciamanesimo, hanno goduto tuttavia di un successo enorme, tanto da farne un bestseller del genere. Di un genere ben strano, forse unico e impensato, che nasconde, fino a farlo scomparire, il confine tra paesaggio spirituale e orizzonte fisico, confondendo il mezzo e la meta del viaggio. Se gli studiosi di rango hanno inteso declassare i suoi libri come paccottiglia new age, un pubblico variegato si è avvicinato alle sue pubblicazioni e, attraverso di esse, al mondo fascinoso del misticismo Tolteco. Forse, gli accademici colleghi del prof. Carlos avevano sbagliato, e non perché la ragione si misuri con il successo, ma perché nei suoi libri Castaneda non dimentica il suo statuto di studioso e nemmeno il suo compito di indagatore del reale, per quanto strano esso possa sembrare. Non solo finzione, dunque, o perdita della ragione, abitano i suoi libri, quali testimonianze dell’apprendistato dell’antropologo americano presso lo stregone don Juan, ma vero generoso afflato scientista.

L’esperimento antropologico, per quanto criticato e rifiutato come pura invenzione, resta impressionante: documentare in prima persona la discesa agli inferi della mente occidentale attraverso l’incontro con uomini, paesaggi, sostanze sconosciute. Castaneda, giovane ricercatore dell’ U.C.L.A. alla fine degli anni ’60, si perde nel deserto di Sonora al seguito di un losco personaggio, un guitto spirito inquietante, un rinsecchito indigeno dall’età imprecisabile, tale don Juan Matus. Si perde, dicevamo, ma non abbandona mai il suo taccuino, e registra l’irrappresentabile, la carenza di senso della parola “tempo”, la caduta del principio di non contraddizione, il declino di ogni orientamento, della normale conduzione dei rapporti, imparando a coltivare una nuova reverenza nei confronti della Natura, un nuovo antichissimo terrore per l’invisibile potere del mondo. La linea di frontiera di ogni spedizione antropologica, l’impossibile compito di svelare l’altro mettendo da parte se stessi, viene se non risolto, originalmente forzato: non è più in questione la differenza tra osservato e osservatore, spettatore e caso osservato, lo scienziato non più protetto dall’armamentario di concetti e pregiudizi capaci di guidarne inconsapevolmente l’indagine, l’osservatore entra di forza nell’universo sconosciuto da mappare non più con gli strumenti dell’antropologo, ma con l’esempio della sua guida, dello stregone don Juan.

Castaneda dunque non tradisce la sua disciplina, l’antropologia, in quanto l’indagine autentica dell’altro da sé è molto meno gravata dal previsione dottrinaria di quanto si pensi. Non abdica nemmeno al compito, per così dire, araldico dell’uomo di scienza. Don Carlos si pone come tramite tra un discorso magico e un’istanza scientifica, si posiziona a metà strada tra essi, come singolo universalissimo esempio di natura mediana, fuoco riflettente il segreto legame macro-microcosmico. In fondo, la natura e il cosmo sono per la magia, in maniera non dissimile dalla scienza, un insieme di legami conseguenti una certa logica. Il sacrificio dell’uomo di scienza, che vuole descrivere il metodo di un sapere non menzionato dalla tassonomia del pensiero occidentale, consiste nell’entrare nelle trame e negli occhi di uomini nuovi, svestendo il più possibile i panni del saputo, del previsto, dello spiegato. Forse questo è un compito impossibile, un sacrificio troppo grande per una sola coscienza, un orizzonte troppo lontano da raggiungere – se non con la letteratura -, col quale il colonialismo conoscitivo dell’uomo bianco ha voluto costruire il suo sogno lucido di liberazione e penitenza, forse tutto questo non conta e non ci salverà dalla colpa di aver imposto a popoli altri, dalla vista perfettamente adeguata ad un mondo non nostro, un modo sbagliato di guardarlo.

 

Thomas Dehor

 

In evidenza: Antonio de Pereda y Salgado, The Knight’s Dream (El sueño del caballero), Museo de la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, 1650.