Tirare le somme (e giudicare l’orrore)

 Due volte, con voce bassa, lanciò verso non so quale immagine,

quale visione, un grido che non era che un soffio: “Che orrore! Che orrore!”

Joseph Conrad, Cuore di tenebra

It’s impossible for words to describe what is necessary to those who do not know what horror means.

Horror. Horror has a face

Col. Kurtz/Marlon Brando, Apocalypse now

Lo Sprone che vi proponiamo è intitolato a una fondamentale emozione umana, un sentimento così radicale da appartenere a una sorgiva esperienza del vivere, un orizzonte metafisico che scuote e sostiene l’anima: l’orrore.
Una scrittura del passato evoca un discorso che si rilancia tra diversi autori e discipline di pensiero, per rivolgersi poi ai lettori. Il testo che abbiamo scelto è Supernatural Horror in Literature e lo firma uno dei massimi scrittori del secolo scorso, H. P. Lovecraft.
Considerare Lovecraft solo uno scrittore di genere è oltremodo riduttivo; egli fu un filosofo dell’orrore, un profondo studioso dello scandalo prodotto dal presentarsi dell’ignoto. Fu un cartografo di quella fenditura che rende il mondo una terra irrisolta, un vasto confine tra universi sconosciuti. Sulla soglia di questa lacerazione, lungo i suoi oscuri lembi, egli stabilì il suo punto d’osservazione; come un testimone dell’insolito registrò l’effrazione prodotta dal fantastico nel mondo reale e lo smarrimento panico che decentra la psiche.
L’orrore soprannaturale è per lo scrittore di Providence una fonte letteraria privilegiata, un dispositivo finzionale in grado di far rivivere, sul piano della fiction, il sublime terrore umano di fronte alla consapevolezza della propria incomparabile diversità nei confronti del mondo, alla sua irriducibile differenza di scala rispetto alla natura.
Per Lovecraft il terrore ha una portata cosmica (cosmic awe), è diretta manifestazione di una Natura cieca – come la Wille schopenhaueriana –, e il cosmo è un illimitato campo di forze che si combinano e si disperdono alternativamente. A Lovecraft interessa l’infinita casistica determinata da questo clinamen dell’orrore, non stabilirne la causa, forse perché una causa non c’è, non esiste una ragione umanamente concepibile per ciò che ci accade.
Così la riflessione che in questo volume apriamo a partire da Supernatural Horror in Literature non si interroga solo sulla natura concettuale dell’orrore ma ne indica anche alcuni insoliti luoghi di manifestazione. È il caso del saggio La bellezza e l’orrore di Sergio Benvenuto, che ragiona sul rapporto intercorrente tra horror e bellezza, indagando la polisemia del termine nella pericolosa liminarità tra armonia e caos, tra apollineo e dionisiaco.
Sull’orrore come spettacolo, che assume le sembianze del terrorismo globale, si incentra lo scritto di David Le Breton, muovendosi tra scenari internazionali e il network della paura che diffonde su innumerevoli broadcast immagini crudeli non stop e rappresentazioni prodotte ad hoc per suscitare terrore e ricaricare continuamente il meccanismo dell’orrore.
L’idea del terrore che si propaga attraverso lo sguardo è il nodo fondamentale che lega il concetto di orrore all’immagine in movimento. Il cinema è un’arte che vuota lo sguardo, che realizza un vuoto, che rende reale un’assenza (quella del mondo e delle cose che lo popolano) proprio mentre mostra qualcosa.
Se l’orrore è il sentimento del fantastico, il terrore di veder apparire l’ignoto, il vuoto ne è la precondizione. L’horror è originariamente horror vacui, è sentimento del vuoto, di quella frazione di spazio e porzione di tempo non ancora realizzatasi.
Il cinema, da questo punto di vista, è reso possibile da una serie di tecniche che fanno comparire e dissolvere cose sulla scena; al suo primo apparire, si è rivelato un’arte del vuoto, una strategia visiva del terrore, ben prima del Frankenstein di James Whale o del Nosferatu di F. W. Murnau (usciti negli anni Trenta del secolo scorso, mentre l’Europa si tingeva di nero).
Che il cinematografo sia da sempre stato strumento di meraviglia non meno che epifania di terrore, è cosa nota. Basti pensare alla reazione del pubblico accorso per la proiezione de L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (1896) dei fratelli Lumière. Lo aveva ben capito Luis Buñuel quando, nella famosa scena di Un chien andalou (1929), filma il sensazionale taglio dell’occhio; il regista inganna lo spettatore, mostra qualcosa che non c’è: l’occhio percorso dalla lama di un rasoio non è un occhio ma un uovo, eppure l’effetto “frightening” è assicurato come pure l’unanime riprovazione.
Il cinema taglia/toglie proprio laddove sembra mostrare. Con l’esposizione multipla (il raddoppiamento fantasmatico dell’immagine) e la dissolvenza, con effetti come l’arresto della ripresa (che fa scomparire e apparire oggetti o personaggi) e dello scatto singolo (che fa muovere oggetti inanimati), esso diventa quel meraviglioso spavento che esibisce un vuoto. La sua metodica pianifica il ripresentarsi di un horror vacui, non inteso come tentativo di scongiurare l’assedio del nulla, ma come congegno che annienta lo sguardo, che mostra delle sorprendenti apparizioni dentro cui si annida un vuoto. Il cinema è, in origine e sempre, metodo della paura, fantastica messa in scena di un altrove incognito.
Si origina dunque il paradosso per cui, nonostante l’orrore sia un sentimento scopico, che riguarda l’immagine e lo sguardo, è tuttavia nel meccanismo che annulla lo sguardo, e rende lo strumento della visione organo di registrazione del nulla, che dobbiamo ricercare una manifestazione dell’orrore.
È, in parte, ciò che avviene nell’ultimo saggio che contribuisce a questo volume: lo scritto di Pietro Pascarelli Oltre il mondo parla proprio di questo nulla continuamente in atto, e lo fa con la mediazione di Jacques Lacan (pensando soprattutto al libro VII de Il seminario) e di Sigmund Freud (con particolare riferimento a Das Ding).
Come rileva il fondatore della psicoanalisi – cui fa eco Martin Heidegger – l’uomo, a differenza degli altri animali, ha a che fare con un mondo fatto di cose, che sono per lui qualcosa nella misura in cui ricevono un nome, sono cioè un fenomeno linguistico. Per questo tramite, grazie al linguaggio, l’uomo ha e non ha le cose, possiede e non possiede un mondo; ha delle cose nella misura in cui le nomina, ma le parole non sono le cose, ed esse sono per l’uomo solo nella distanza del linguaggio. Questa irriducibile distanza tra l’uomo e le cose rivela il nulla con cui l’uomo ha da sempre a che fare. È il nulla che fa l’uomo, che lo rende umano.
Questa paradossale esperienza lo rende diverso dalle altre creature, lo rende testimone di un nulla (l’uomo come “luogotenente del nulla” per dirla con Heidegger) che continuamente si attua, osservatore di un avvicinamento che è già resa, sperimentatore di un desiderio e di una malinconia costanti. Non stupisca perciò un altro paradosso, quello descritto da Noël Carroll in The Philosophy of Horror (1990). Nel suo saggio Carroll, chiedendosi come funzioni l’orrore, elabora un sillogismo che assume questa forma:

  • Nell’horror vengono presentate situazioni che riteniamo orrende.
  • Tendiamo a evitare situazioni che riteniamo orrende.
  • Non tendiamo a evitare gli horror.

Quasi si ritrovi un valore catartico nell’avvicinare l’orrore – e il nulla che esso cela – l’uomo non può fare a meno di godere della finzione messa in scena dall’orrore; il suo fascino indiscreto, il suo segreto appeal ha a che fare con una radice umana, troppo umana, inconfessabile.
Sarà per questo che in un grande capolavoro come Cuore di tenebra l’oscuro personaggio Kurtz solo sul letto di morte riesca a nominare l’orrore che ha condizionato la propria esistenza, e se l’orrore ha un volto, come dice Marlon Brando nell’“alterata” trasposizione cinematografica di Francis Ford Coppola del romanzo di Conrad (Apocalypse now, N.d.R.) forse esso si mostra come una scomparsa, si vede meglio quando tutto sta per sparire.

(di Marco Pascarelli)

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