H.G. Wells, visionario realista

Tra la folta schiera dei mitologi contemporanei H.G. Wells merita un posto d’onore. Pochi autori come lui hanno saputo interpretare il bisogno autentico e primigenio dell’uomo di storie, se non salvifiche, in grado di dare forma reale al quotidiano proiettandolo in mondi a venire, di fantasia o di semplice, eversiva, “evasione”.

I Racconti dello spazio e del tempo, usciti all’alba del nuovo secolo carichi di una voce profonda e di una potenza narrativa di lunga gittata, riuniscono la capacità di bildung del mito con l’astronomia e l’alchimia, la filosofia e la fisica, l’astrologia e la religione quali forze atte a rappresentare e fronteggiare l’ignoto e gli incubi che esso proietta. Ma l’ingrediente principale, il collante fantastico e preveggente, è, come sempre, la grande arte di Wells, la sua capacità visionaria e poetica di dare forma a un’opera letteraria in grado di trasformare la realtà.

Nei Tales wellsiani si ricapitola tutta la tavolozza emotiva, immaginifica e sconvolgente di un genere letterario che l’autore de La guerra dei mondi, contribuì a creare. L’invasione aliena, la visita da e in altri mondi, il salto nel tempo – in un’epoca senza voce, di cui contribuisce a inventare il linguaggio –, la distopia attualissima, sono qui rappresentati.

Le prime due storie, L’uovo di cristallo e La stella, si adagiano sul terreno delle scienze dure, che fornisce il repertorio logico-strumentale e la verosimiglianza rispetto alla sostanza teorica; la terza, Una storia dell’età della pietra, si articola nelle visioni assimilate a un “ricordo” allucinato delle origini e si impone con tutta la forza rappresentativa dei pittogrammi di Lascaux.

La quarta, Una storia dei giorni a venire, narra di un’incantevole storia d’amore che si colloca nella Londra del ventiduesimo secolo, nella cornice inquietante di un’epoca in cui un’umanità fredda e ipertecnologica ha raggiunto il grado zero della sua dignità: in un mondo stregato dal danaro e desolato ai ricchi è riservata la superficie, con eleganti roof e la vista del sole e delle stelle, mentre i poveri sono costretti al duro lavoro e relegati nei sotterranei di una megalopoli di trentatré milioni di abitanti.

La quinta, L’uomo che poteva fare i miracoli, si situa in una specie di terra di mezzo in cui, sullo sfondo del mondo oscuro e inconoscibile – quasi platonica caverna – che non smette di atterrirci e attrarci, si levano bagliori di gesti rituali, ardite fantasie e opere demiurgiche, ma anche le luci e le ombre spettrali di cui si circondano i demoni dell’avidità, dell’arroganza e dell’egocentrismo che tormentano il genere umano e chiamano Wells anche a misurarsi con la prospettiva etica.

In queste storie, insomma, si mescolano, con una sapienza che non smette di stupirci e di avvincerci, e dalle quali non si può sfuggire, tutte le diverse domande poste al secolo, agli uomini del tempo di Wells, ma anche a noi tutti.

Tratto dall’Introduzione ai “Racconti dello spazio e del tempo